"Bloggopolis"

La Piazza delle Idee nella Città del Dialogo

Le idee sono il motore di una realtà che vive e respira al di là della nostra sola mente. Ecco allora spuntare Bloggopolis, uno spazio contemporaneo per dar voce a una città saggia e antica che vuole parlare, dialogare e conversare del presente e del futuro. Una piazza in cui raccogliere, attraverso i vostri commenti, il 'sentiment' di una popolazione a volte silenziosa e timida, sicuramente generosa e propositiva. Una polis del nostro tempo, la cui piazza virtuale sia specchio di una città che ci sta a cuore. Piacenza ‘città comune’.


sabato 1 settembre 2007

QUANDO LA PARODIA E’ UNA COSA SERIA


C’è molto più da ridere su Eco che su Garibaldi

IN “FÌDEG” PAOLO COLAGRANDE, SCRITTORE REALISTA, FA METALETTERATURA E SI ARRENDE DOPO OGNI RIDICOLA VITTORIA

Sto leggendo il romanzo-opera prima “Fìdeg” di Paolo Colagrande (Alet, pp.205, euro 12). Ma ho detto avventatamente “romanzo”, perché appunto lo sto leggendo, sono solo a pagina 38 e che questo che leggo sia un romanzo è solo un’ipotesi da verificare o, come direbbe Karl Popper, da falsificare. Ma già ho capito, caro Colagrande che tu ce l’hai con Karl Popper, ragione per cui sono già certo che arriverò alla fine del libro e tu non mi avrai permesso né di verificare né di falsificare l’ipotesi che il tuo sia o non sia un romanzo. Non lo sai neppure tu. Pensi che sia un falso problema. E comunquesia, romanzo o non romanzo, il fatto è che io, da quando ho cominciato, ho continuato a leggere. Potrei smettere. Ma so che continuerò. Non riesco a immaginare come farò a recensirti, caro Colagrande. E allora la sola scappatoia è imparare da te, mettermi sulla tua strada, cantare in coro in due, anche se tu (te lo dico subito come giudizio, in veste di recensore) ho già capito che canti meglio di me. Sei più allenato e credi di più nel canto. O più precisamente, come dicono i recensori pignoli, non ci credi per niente, ma non ci credi con una tale convinzione, dovuta all’allenamento di non credere, che la tua è una vera fede nella non-fede. Io questa fede non ce l’ho, non l’ho ancora raggiunta. Distinguo ancora e credo, come un allocco, che si possa, in alternativa, credere o non credere, due cose diverse, diversamente ma anche similmente, sia comiche che, permettimi, un po’ tragiche. O meglio, tragiche lo sarebbero, se ci fosse un Dio letterario, a farci credere per certo nei generi letterari. Ma tu mi insegni che non c’è né Dio né ci sono i generi. Ecco, te lo dico subito, caro autore Paolo Colagrande, e tu, caro lettore già stufo di leggere la mia pseudo-recensione al suo libro, romanzo o non romanzo. Ecco il problema e nello stesso tempo la sua soluzione: il fatto è che senza una chiara ragione (e io professionalmente alla chiarezza ci tengo) sto continuando a leggere il libro e come recensore dovrò almeno cercare di capire e di spiegare perché, che cosa mi succede, come mai lo faccio. Fuori di parodia, come potrebbe anche dire il filosofo Giorgio Agamben, che sull’idea di parodia ha scritto un saggio abbastanza sibillino (perché per lui la parodia non è per niente quello che si intende per parodia, ma è la sola cosa seria che ci è dato di fare), fuori di parodia, dicevo, o sempre più addentro nella parodia, affermo con convinzione da prendere alla lettera che Paolo Colagrande ci sa proprio fare, nel suo genere, cioè nella negazione parodistica e ludica dei generi, nonché nella parodia della negazione, dato che la negazione per lui è evidente che ha fatto il suo tempo, come hanno fatto il loro tempo sia il maestro Borges che gli allievi Calvino e Eco, con la mania di citarli insieme in fila per dimostrare che la letteratura è una cosa e la realtà è un’altra, eccetera eccetera. Una scrittura che crea e distrugge se stessa. Il motore del libro (una sequela di piccole catastrofi personali, cioè importantissime per la persona) è la voce che Colagrande ha inventato e si è dato per tirare avanti. Con quella voce, che fa comunque ridere, può dire quello che vuole. Potrebbe fermarsi quando vuole, anche subito. E può anche non smettere più. Cosa che non ha fatto (è un tipo intelligente, ma fa finta di no) perché credo che si sia controllato parecchio, alla fine, anche se non sembra. Si è controllato o si è stufato e ha smesso a pagina 205, quando il suo primo libro, questo “Fìdeg” che cerco di recensire, si ferma. La cosa che fa capire Colagrande, anche ai più letterati fra i letterati, intendo a quelli che ci tengono molto ad avere “una precisa idea di letteratura” (troppo precisa) e sanno sempre che cosa distingue essenzialmente la letteratura da tutto il resto che si scrive, è che il problema non è l’idea di letteratura che si ha, ma come la si mette in pratica quando si scrive. Voglio dire che l’idea che hai può essere anche buona e bella, ma se quello che combini sulla pagina risulta insulso, pretenzioso e noioso, l’idea non vale, non ti salva, non è più né bella né buona. Credi nella realtà e credi che la letteratura dovrebbe parlarne? Non importa. Bisogna vedere se è reale quello che scrivi credendo di scrivere di cose reali, che succedono. Le cose reali possono anche succedere, ma se nelle tue pagine non succede niente di reale per chi legge, neppure una bugia o un delirio, non c’è realtà che ti salvi. Credi viceversa nella scrittura che è tutto, che produce se stessa e crea un mondo parallelo, autonomo e indipendente rispetto a quello presuntamene reale? Non importa nemmeno questo. Di libri che credono nella scrittura invece che nella realtà ne conosco e ne ho letti. Ma alcuni sono buoni, altri non valeva nemmeno la pena di scriverli e si capisce subito che l’autore si illude affidandosi a quella che crede una giusta e precisa idea di letteratura. Colagrande fa metaletteratura e fa letteratura realistica allo stesso tempo. La sua è una scrittura che crea e distrugge se stessa pagina dopo pagina, capoverso dopo capoverso. Non c’èniente che “consista” fuori di quello che sta scrivendo in quel momento colui che scrive. Solo che per scrivere Colagrande non può fare a meno di parlare delle cose vere che sa o immagina, più o meno di persona. E allora parla di tutto ciò che riesce ad acchiappare, a tirare dentro il libro e a immagazzinare (nel suo caso una serie di cupi, esilaranti fallimenti). Dice una cosa. Poi cambia e ne dice un’altra. Poi ci torna. Tutto è un po’ inventato, ma tutto è piuttosto vero. Quasi vero: come quando si dicono le cose vere trovandole o rendendole comiche. Colagrande racconta come sta cercando di scrivere un romanzo storico sugli eroi di guerra e di pace da Garibaldi a oggi: o meglio riscrivere, perché il manoscritto del suo primo e vero romanzo storico è andato perduto, è finito in una discarica, e lui ora deve ricordarselo, riassumerlo, sintetizzarlo. L’autore ha lottato e lotta con la vita. Ma il segno della sua vittoria è che si è arreso. Sa arrendersi in tempo ogni volta che trova ridicola e poco appetibile qualsiasi vittoria. Qualunque cosa succeda e comunque vada, lui, l’autore, il narratore, porta a casa il suo bottino di cose da dire, metà vere e metà che furono vere e adesso fanno ridere. Colagrande ci mostra che scrivere letteratura è un aldilà da quello che succede, ma solo dopo che è successo. Perché lo scrittore, uno scrittore come lui e come tanti altri suoi fratelli, è uno che in sostanza dice: io ci sono, a me è toccato tutto questo. Eppure io non c’entro. Con quello che mi è successo e può succedermi, io c’entro fino a un certo punto. Io c’entro poco. Non mi acchiappate più. Quella di Colagrande è letteratura realistica scritta per far scivolare la realtà, toglierle il contegno e farla diventare comica, patetica, ridicola, una realtà senza eroi, perché di qualunque eroe parli, a cominciare da se stesso, non si può che ridere. Senza disprezzo. Con affetto e pietà. Lo scrittore comico può sembrare cattivo. Ma è buono. E’ il più buono degli scrittori. Solo che la sua bontà è implacabile. Si finisce tutti a culo per terra, mentre lui ci fa ridere, ci commisera e ci vieta anche la fantasia di qualunque eroismo. Perché poi, come tutti sanno, i nostri tempi sono antieroici, specie in letteratura. Comunque, grazie, caro Colagrande, per averci fatto ridere dei nostri eroi da Garibaldi a Umberto Eco, dimostrando proprio bene che su Eco c’è molto più da ridere che su Garibaldi, seriamente parlando.

Alfonso Berardinelli

ALCUNE QUESTIONI IN MERITO AL GOVERNO DELLA CITTA’ DOPO LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2007


Dopo le elezioni amministrative del 2007 sono apparsi sulla stampa diversi interventi di componenti o sostenitori della coalizione vincitrice. Alcuni di questi interventi si sono caratterizzati per l’unire alla più che legittima soddisfazione ed esultanza per il risultato ottenuto una oggettivamente sgradevole derisione per i candidati e le coalizioni sconfitte. Posto che la derisione per chi ha perso è quantomeno inelegante in ogni caso, diventa però particolarmente sgradevole quando è rivolta nei confronti dei candidati cosiddetti minori, i quali da un lato potevano contare su mezzi molto inferiori e dall’altro avevano prospettive e obiettivi diversi dalle due coalizioni principali.

Si è inoltre lasciato intendere che l’esito delle elezioni abbia dimostrato la giustezza dell’operato e dei programmi di chi ha vinto rispetto alle ingenerose critiche provenienti anche da sinistra. Si deve dissentire con forza da questa impostazione: nella concezione democratica della politica non è vero che chi vince ha sempre ragione, chi vince ha il diritto-dovere di governare, preferibilmente rispettando i programmi con cui si è presentato. Si possono facilmente trovare casi nei quali si è appurato che chi aveva vinto le elezioni non aveva affatto ragione. Restando nell’ambito italiano e in quello amministrativo non credo che l’elettorato progressista ritenga che Lauro a Napoli, Lima o Ciancimino a Palermo, Cito a Taranto, Gentilini a Treviso, la Moratti a Milano (per citare i primi che vengono in mente) abbiano avuto o abbiano ragione solo perché hanno vinto le elezioni.

Mi interessa però fare un passo indietro e partire dallo scorso consiglio comunale, nell’ambito del quale si sono create delle divergenze all’interno della maggioranza di centrosinistra che aveva prevalso alle elezioni. Alcuni consiglieri non hanno condiviso una certa impostazione della Giunta e, pur votando lealmente centinaia di volte e risultando spesso decisivi, si sono distinti su alcuni specifici ed emblematici provvedimenti. Su questi distinguo si è aperto un confronto con cittadini, associazioni e forze politiche non rappresentate in consiglio.

Ma qual’era nel merito l’impostazione non condivisa? Come possono essere sintetizzate le differenze? Direi che per esemplificare possono essere ridotte a due:

1) scambio territorio-risorse. In sostanza significa che il comune consente l’edificazione o l’utilizzo commerciale in spazi in precedenza utilizzati ad altri scopi ed in cambio ricava risorse per eseguire opere di pubblica utilità. Questa operazione presenta vari aspetti delicati: lo spazio non è illimitato, una volta utilizzato a scopi civili, commerciali o industriali è molto difficile che ritorni disponibile; può avere ripercussioni sulle aree limitrofe (cosa ha implicato il sorgere del polo logistico per le frazioni vicine?); la continua nascita di centri commerciali ha conseguenze sulla viabilità e sul tessuto commerciale delle altre zone della città; lo stesso spostamento dei cittadini in nuovi quartieri periferici determina un accresciuto pendolarismo con i conseguenti problemi di traffico e inquinamento, senza tacere dei rischi di carattere speculativo conseguenti alla semplice constatazione che il valore economico di un terreno aumenta di dieci volte se passa da agricolo a edificabile.

Naturalmente questa impostazione non è stata inventata dalla giunta Reggi, vi era anche prima ed è diffusa anche in altre città (indifferentemente governate dal centro-sinistra o dal centro-destra), quello che è avvenuto è però una spregiudicata applicazione di questo principio, il polo logistico è raddoppiato, sorgono centri commerciali di dimensioni in precedenza mai viste a Piacenza (Ipercoop, Esselunga, Castorama), grandi aree in precedenza destinati ad altri scopi vengono edificate (ex fiera, ex Unicem, Corso Europa, San Lazzaro-Tangenziale). In cambio sono sorte decine di rotonde con annessi monumenti, sono state realizzate diverse piste ciclabili, chilometri di strade sono state riassaltati. Gli oneri di urbanizzazione che dovrebbero servire a compensare le spese che deve sostenere per servire le nuove aree costruite si sono trasformate per il comune nella principale fonte di finanziamento reale, nell’unico modo che ha il comune per reperire risorse da utilizzare per realizzare qualcosa di nuovo rispetto all’ordinaria amministrazione.

Sembra che non vi sia una fine a questa operazione, alcuni interventi sono stati bloccati nello scorso mandato dai consiglieri “dissidenti” quali la sciagurata delocalizzazione dell’ex Acna a Cà Ossi, che avrebbe creato una Besurica bis esterna alla tangenziale nell’unica zona rimasta verde alla periferia di Piacenza, la nascita di un ipermercato non alimentare di fronte all’Esselunga chiamato (o mascherato da) Palazzo Uffici; di altri, temo, si sentirà parlare nel prossimo futuro contando su una maggioranza più “ragionevole”. In particolare si porrà il nodo delle aree militari. Diversamente da quanto sostenuto da qualcuno non si è affatto parlato troppo e prematuramente di questo argomento. La questione delle aree militari è quella più importante per la città per i prossimi anni, le scelte che verranno compiute ne disegneranno il volto più di ogni altro intervento recente. Le ipotesi che timidamente (ma non troppo) iniziano a delinearsi sono molto preoccupanti, se davvero si pensa alla nascita di un grande stabilimento militare nell’area del polo logistico, trasferendovi le attività ancora in funzione, se questo dovrà essere finanziato con la cessione da parte dello Stato delle tante aree presenti in città (con un ricavo già quantificato in 250 milioni di euro), se qualcuno ipotizzasse che queste aree possono essere anche solo in parte utilizzate, non per una compensazione ambientale dovuta alla città dopo le tante recenti edificazioni, ma per recuperare tali risorse (leggi costruendovi sopra), allora ci troveremmo di fronte al rischio di una speculazione edilizia che non ha precedenti in questa città;

2) concezione della democrazia, rapporto giunta-consiglio comunale. L’amministrazione Reggi, peraltro in perfetta sintonia con quanto fatto da altre giunte in questo paese, anche in questo caso indistintamente di destra o di sinistra, ha agito in modo da ridurre il ruolo dei consiglieri di maggioranza a quello di votanti a favore dei provvedimenti proposti, senza concorrere alla loro elaborazione e speso senza neppure conoscerli prima. In questo modo tutti i poteri sono raggruppati nel sindaco e negli assessori che lui nomina (in gran parte al di fuori del consiglio comunale). Per rendere comprensibile i termini della questione, è una concezione del tutto analoga alla limitazione del potere legislativo a favore di quello esecutivo più volte propugnata a livello nazionale da Berlusconi.

Di fronte all’impossibilità di modificare questi orientamenti è sorta all’interno del centrosinistra una coalizione alternativa a quella ufficiale con candidato a sindaco Gianni D’Amo. Questa coalizione e questo candidato si sono battuti con grande energia e hanno cercato di sopperire con la forza delle idee all’enorme inferiorità di mezzi.

Il risultato elettorale è stato significativo, si è sfiorato il 3,50 % e si è ottenuto un consigliere comunale. Nelle ultime due elezioni nessuna candidatura alternativa alle due coalizioni, che con il loro finto bipolarismo dominano la politica italiana, ha neppure avvicinato tale risultato; nondimeno il risultato non è stato soddisfacente, non siamo riusciti a far comprendere a tutti i cittadini di Piacenza quanto fossero importanti le ragioni che sostenevamo, pertanto se nel centro storico (che abitualmente vota più a destra) abbiamo superato il 5%, nei quartieri periferici e nelle frazioni abbiamo conseguito minor successo.

In campagna elettorale né il sindaco Reggi né i partiti che lo sostenevano, intento il primo a costruirsi un’immagine moderna, positiva e friendly (in una parola arancione) e i secondi a non differenziarsi dalla sua immagine ritenuta (a ragione) vincente, hanno ritenuto di rispondere alle questioni che ponevamo. Dopo il primo turno Reggi ha deciso di non apparentarsi con noi (operazione che nel 2002 aveva compiuto con 3 liste, compresa quella anti parchimetri), scelta che avrebbe avuto un grande significato: il riconoscimento della fondatezza, almeno potenziale o parziale, delle questioni che ponevamo ma anche il superamento della distinzione creatasi nel centrosinistra.

Nel frattempo le elezioni sono alle spalle, il centrosinistra si è confermato, si è insediata una nuova giunta con le inevitabili felicità e delusioni (tra chi è rimasto fuori vi è che ha scoperto quanto possa essere brutta la politica, alcuni, da sempre fuori, lo sapevano già da tempo), non vi è più quindi il rischio di lavorare per il Re di Prussia e allora testardamente torno a chiedere: è vero che il modello Reggi si caratterizza in particolare per lo scambio territorio-risorse e per il rafforzamento dei poteri della giunta a scapito del consiglio comunale o abbiamo capito male noi? E in caso affermativo va bene così?.

In una fase politica caratterizzata dall’appassionante dibattito su quella pura operazione di immagine, del tutto privo di noiose opzioni programmatiche, che si avvia ad essere la nascita del Partito Democratico non so se vi sia alcuno interessato a rispondere; io continuo a pensare che queste questioni non possano essere ignorate o eluse da partiti, movimenti, associazioni, cittadini che si definiscono progressisti o che comunque sono interessati al futuro della città, ma tant’è. Finisco quindi citando, scherzosamente, il titolo di un famoso articolo di molti decenni fa: opinione pubblica progressista “se ci sei batti un colpo!”.

Mario Giacomazzi, già candidato per il consiglio comunale nella lista CittàComune