"Bloggopolis"

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venerdì 30 novembre 2007

Quando l’Italia poteva ben dirsi un paese laico

Intervento di Gianni D’Amo in Consiglio comunale in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Piacenza a Mons. Luciano Monari (22 ottobre 2007)


Non è principalmente per venire incontro alla giusta esigenza non unanimistica appena esposta dal collega Vaciago, che non parteciperò alla votazione di oggi: è per motivi più di fondo, che è difficile argomentare qui, perché sembrano scomparsi dal dibattito politico-culturale del paese, dopo esserne stati una vena fondamentale.

Esiste in questo paese una lunga tradizione laica, che affonda le sue radici, dal punto di vista storico-politico, nel Risorgimento, e prima ancora nella cultura, almeno dall’Umanesimo e Rinascimento, passando per l’Illuminismo e giungendo fino a noi. Questa posizione laica può anche essere accusata di laicismo, e legittimamente secondo me: del resto essa si è espressa in certi periodi e momenti della storia in forme di acceso anticlericalismo (certamente sono esistite forti correnti anticlericali in tempi a noi vicini, nell’Italia novecentesca). Tuttavia, è esistita ed esiste anche una posizione semplicemente, sobriamente laica. Essa concepisce rapporti tra Stato e Chiesa improntati alla netta separazione, una separazione che secondo me oggi viene messa in discussione dalla decisione, che il Consiglio si appresta ad assumere, di conferire la cittadinanza onoraria, come è stato ricordato, a un’autorità religiosa.

Vorrei tralasciare la tradizionale letteratura laica (o laicista o anticlericale), che peraltro annovera nomi importanti della nostra storia patria, da Cavour a Salvemini, da Giovanni Amendola a Benedetto Croce. Sono abituato a cercare il nucleo di fondo di verità che esiste nella posizione che in un certo momento sento come altra rispetto alla mia: così ho cercato e trovato lumi in uno studioso di religioni, in un libro largamente sconosciuto, che improvvisamente mi è tornato in mente qualche tempo fa, mentre si discuteva in Conferenza dei capigruppo di questa faccenda.

Vorrei dunque leggere qualche passo di un eminente studioso che si chiama Giorgio Levi Della Vida, il cui nome rivela chiaramente le ascendenze ebraiche, peraltro non praticante, nato alla fine dell’800 e morto negli anni ’60 del 900. Questo signore, che non gode di alcuna notorietà - come a molti tra i migliori capita in questo paese, che non ha ben chiaro di cosa menare vanto e di cosa vergognarsi (e non mi riferisco al tema di oggi, parlo di ben altro) – è, credo, uno dei più importanti studiosi delle religioni moniste, cioè delle religioni del Mediterraneo, è il fondatore dell’islamistica italiana, è stato professore dell’Università di Napoli, di cui ha fondato il ramo degli studi orientali, di Torino, di Roma. Poi, siccome non ha giurato - è tra i dodici docenti universitari che non hanno giurato nel ’31 la fedeltà al regime fascista - a un certo punto nel 1938 (l’anno delle leggi razziali) se n’è andato negli Stati Uniti, a Princeton, per poi tornare a morire in Italia. Giorgio Levi Della Vida è stato il principale redattore delle voci religiose dell’enciclopedia Treccani, voluta e diretta da Giovanni Gentile, tranne ovviamente di quelle cattoliche, perché quelle furono riservate a stretti collaboratori del cardinal Gasparri.

Chiedo scusa per la lunga presentazione, ma devo ancora ricordare che le pagine sono tratte da un libro di memorie pubblicato negli anni ’60 (Fantasmi ritrovati, p.e. Neri Pozza 1966, riedito da Liguori nel 2004), e in particolare da un saggio, “Un ebreo tra i modernisti”, in cui Levi Della Vida ricorda la sua profonda amicizia con tre cattolici praticanti: padre Giovanni Semeria, padre Giuseppe Gabrieli ed Ernesto Bonaiuti, che non so se chiamare “padre”, poiché essendo stato l’esponente più importante di quella corrente del cattolicesimo che si è chiamata “modernismo”, fu scomunicato e solo successivamente riammesso nella Chiesa cattolico-romana.

Credo che sia mio dovere - e credo che l’intellettuale Luciano Monari, ma anche l’uomo Luciano Monari, lo comprenderà - portare testimonianza di qualcosa di cui si è perso la memoria pressochè totalmente, e secondo me ingiustificatamente.

Leggo dunque per pochissimi minuti qualche pagina di Della Vida.

«A chi è venuto al mondo…dopo il primo decennio del ‘900…riesce molto difficile rendersi conto che l’Italia di allora, l’Italia della mia adolescenza e della mia gioventù acerba, poteva ben dirsi un paese laico. Non già, beninteso, che la religione vi fosse perseguitata o negletta. (…)…la gente affollava le Chiese come oggi (più che oggi, dicono le statistiche…); a Natale e Pasqua San Pietro di Roma e la sua piazza rigurgitavano di fedeli e di curiosi, anche se il Papa non appariva, come ora, sulla loggia a impartire la benedizione urbi et orbi. Le famiglie “bene” di Roma – allora si diceva “come si deve” – facevano istruire ed educare la loro prole a Mondragone dei gesuiti, al Nazzareno degli scolopi, presso le suore francesi dell’Assomption, anche se talvolta i padri di famiglia (come si veniva poi a sapere quando morivano, dagli annunci funebri) avevano in massoneria il grado di Rosacroce o di Cavaliere Kadosc. Ma tutto questo non era né essenziale né centrale nella società di quel tempo; si svolgeva, starei per dire, in sordina, quasi in margine alla vita pubblica e culturale, senza proprio nascondersi, ma senza nemmeno esibirsi. Si andava sì a messa, ma la Santa Messa (colle due maiuscole) non era menzionata sui quotidiani a ogni piè sospinto, a ogni inaugurazione di un ponte, di una scuola o di un lavatoio pubblico. (…) Processioni solenni se ne facevano anche allora, ma nelle grandi città si evitava che intralciassero il traffico, e i prefetti e sindaci non avevano l’abitudine di figurarvi. Vi era, del resto, tra Stato e Chiesa una curiosa situazione, che non era né di separazione né di concordato, né di ostilità né di armonia, in conseguenza della quale i due poteri facevano di tutto per interferire il meno possibile nelle rispettive sfere di azione, quasi ignorandosi a vicenda. (…) Non tanto, peraltro, nel campo politico e sociale, quanto in quello della cultura si affermava il carattere laico dell’Italia. Anche qui, si badi, i cattolici non erano assenti come individui, erano assenti in quanto membri dichiarati di un organismo vivo e operante, che fosse partecipe con fisionomia propria delle attività culturali della nazione. Cattolici impegnati in questa sorta di attività ce n’erano senza dubbio, e non pochi, ma non si presentavano come tali: erano piuttosto intellettuali cattolici che cattolici intellettuali.»

Penso che per dare l’idea di un clima culturale e civile – per ricordare cos’è stata l’Italia laica - possa bastare quello che ho letto, e ringrazio per l’attenzione. Ora, di fronte alla proposta del Sindaco, e poi oggi di questo Consiglio, di assegnare la cittadinanza onoraria di Piacenza a Mons. Luciano Monari, mi sono posto problemi di questo ordine: mi sono chiesto precisamente se sia corretto assegnare una carica, un riconoscimento tipicamente civile e istituzionale, a un’autorità religiosa, laddove si consideri che non è separabile, come è giusto che non sia, l’attività pastorale di evangelizzazione di Mons. Monari dalla sua attività di cittadinanza.

Credo di non dover insistere sul fatto che, pur non essendo io un praticante e forse neanche un credente, ho una certa attrazione e simpatia per Mons. Monari: la qual cosa, mi rendo conto, non ha nessuna importanza, ma la ricordo per sgombrare il campo da possibili equivoci. Credo, tuttavia, che sia un errore conferire la cittadinanza onoraria a un Vescovo, e per motivi di principio prima che di opportunità. Quelli di opportunità hanno pure un loro peso: come è stato ricordato da qualche consigliere che mi ha preceduto, ci sono stati Vescovi prima e altri ce ne saranno poi. Mons. Monari viene da Reggio Emilia, va a Brescia: sarà cittadino onorario di Brescia? Non lo è stato di Reggio Emilia? Sono interrogativi legittimi, che avrebbero consigliato ben altra prudenza.

Non sono d’accordo con il conferimento della cittadinanza onoraria a Mons. Monari per motivi di opportunità, ma soprattutto per una questione di principio. Io – vorrei che fosse chiaro – sono venuto qua oggi con una copia della Costituzione repubblicana, perché non mi interessa una piccola polemica col Sindaco Reggi o con la larga maggioranza favorevole che sta emergendo in questo Consiglio. Credo che il problema investa addirittura la nostra Costituzione, la quale contiene delle contraddizioni, e credo che prima o poi sarà tempo di ragionarci su, pacatamente se sarà possibile. A me pare chiaro che non si può dire, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione, che tutti gli uomini sono uguali, indipendentemente dal credo religioso, non si può recitare all’art. 8 che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, e mantenere in Costituzione un art. 7 - sottolineo in Costituzione, art. 7 della Costituzione italiana – a regolare non i rapporti tra lo Stato italiano e le religioni, ma tra lo Stato italiano e una sola religione, quella cattolica (che chiaramente è la religione maggioritaria, ma lo è anche in altri paesi, dove pure storicamente si è addivenuti a definire tra Stato e Chiese rapporti diversi).

Io cerco di pormi delle domande non riconducibili a un laicismo di bandiera: mi chiedo se l’Italia di cui parla Della Vida, l’Italia di prima del fascismo, sia stata anche dal punto di vista religioso un’Italia peggiore di quella di oggi. E la risposta che mi do è: “no”! Non credo che quell’Italia - tanto più povera e tanto più arretrata rispetto all’attuale – sia stata dal punto di vista cattolico peggiore di quella di oggi. Mi chiedo soprattutto se fosse peggiore da un punto di vista più largamente cristiano, semplicemente evangelico, dal punto di vista della pratica della solidarietà e dell’amor del prossimo, dal punto dii vista della carità: e ancora tenderei a rispondermi che no, che quell’Italia non era peggiore dell’attuale.

Devo proprio, in conclusione, citare Cavour. Il quale, poco prima di morire, a quasi un decennio dalle leggi “laiche” adottate nel Regno di Sardegna e poi estese al Regno d’Italia (“libera Chiesa in libero Stato”), osservava: «La vera religione ha molto più impero sugli animi dei cittadini che al tempo in cui il blandire una certa frazione del clero o l’ipocrito frequentare delle Chiese facevano salire agli impieghi e agli onori». Come Cavour, penso anch’io che, nella piena autonomia tra Stato e ogni Chiesa (anche quella cattolico-romana), la pratica e l’espressione delle religioni e della religiosità possano dispiegarsi nel modo più consono.

Non intendo tediare ulteriormente. Ribadisco il mio profondo apprezzamento di quanto Luciano Monari ha fatto a Piacenza, e non voglio negarmi il piacere di augurare a Mons. Monari di continuare a fare, come ha fatto, ciò in cui crede, e che ne abbiano a trarre giovamento le popolazioni bresciane. Tuttavia ritengo che l’aver perso completamente il filo conduttore di una tradizione che separava Stato e Chiesa non sia utile e ho ritenuto mio dovere ricordarlo. Per questo ordine di motivi, che, lo ribadisco, sono di principio e richiamano a un’epoca in cui Stato e Chiesa erano nettamente separati, che non hanno nulla a che vedere con l’operare e l’operato di Mons. Monari, ritengo di non partecipare al voto per il conferimento della cittadinanza onoraria a Mons. Monari medesimo. Grazie.

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