"Bloggopolis"

La Piazza delle Idee nella Città del Dialogo

Le idee sono il motore di una realtà che vive e respira al di là della nostra sola mente. Ecco allora spuntare Bloggopolis, uno spazio contemporaneo per dar voce a una città saggia e antica che vuole parlare, dialogare e conversare del presente e del futuro. Una piazza in cui raccogliere, attraverso i vostri commenti, il 'sentiment' di una popolazione a volte silenziosa e timida, sicuramente generosa e propositiva. Una polis del nostro tempo, la cui piazza virtuale sia specchio di una città che ci sta a cuore. Piacenza ‘città comune’.


giovedì 15 dicembre 2011

Auguri Piergiorgio!


Auguri Piergiorgio!





per gli ottant'anni di Piergiorgio Bellocchio vi rimandiamo alle pagine dedicategli il 15 Dicembre 2011 dal quotidiano piacentino "Libertà" 

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 e da "il manifesto"
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...e il 16 Dicembre 2011 dal quotidiano "La Cronaca " di Piacenza
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lunedì 12 dicembre 2011

Martedì 13 Dicembre - Vita e impegno di Ada con Piero e oltre




Nel 150° dell’Unità d’Italia, il ricordo di due
italiani esemplari
PIERO E ADA GOBETTI
“Cittàcomune” propone, nel 150° anniversario dell’Unità, una riflessione pubblica su due italiani per molti aspetti esemplari: Piero e Ada Gobetti

Piacenza-Teatro dei Filodrammatici,
via Santa Franca 33
Martedì 13 dicembre 2011 incontro
con inizio alle ore 21
Vita e impegno di Ada
Con Piero e oltre…
Ne discutono tra loro e con i presenti
Gianni D’Amo ed Ersilia Alessandrone Perona

Ada Prospero Marchesini Gobetti (1902-1968) conosce Piero Gobetti negli anni di liceo e lo sposa nel 1923. Collaboratrice attiva e intelligente delle sue lotte e iniziative, condivide con lui le grandi  speranze del “biennio rosso” e le persecuzioni seguite all’avvento al potere di Mussolini e del fascismo. La morte di Piero nell’esilio parigino, poche settimane dopo la nascita del figlio Paolo, non piega il suo impegno nella lotta antifascista. La sua casa torinese di via Fabro 6 (oggi sede del Centro Studi Piero Gobetti, da lei fondato nel 1961) diventa un centro di organizzazione dell’attività cospirativa per vecchi e giovani antifascisti. Già militante di “Giustizia e Libertà”, Ada partecipa alla Resistenza col giovanissimo figlio Paolo nelle formazioni del Partito d’Azione: da questa esperienza trae il Diario partigiano, pubblicato da Einaudi nel 1956. Vicesindaco di Torino subito dopo la Liberazione, affianca all’impegno politico, lungo tutto il dopoguerra, quello letterario-pedagogico (soprattutto con traduzioni dall’inglese e racconti per ragazzi) e giornalistico.

Ersilia Alessandrone Perona è direttore dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”. Dall’ampia produzione di ricerca storica e saggistica, segnaliamo: il testo su “La bandiera rossa” in Mario Isnenghi, (a cura di) I luoghi della memoria. Simboli e mito dell’Italia unita (Laterza 1996) e “Dolce dono graditissimo”. La lettera privata dal Settecento al Novecento, che contiene il saggio “L’epistolario come forma di autobiografia: un percorso nel carteggio di Piero Gobetti” (Franco Angeli, 2000). Tra i massimi studiosi di Piero e Ada Gobetti, Ersilia Alessandrone Perona ha curato e corredato di importanti saggi introduttivi: Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926 (Einaudi 1991), Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale (Einaudi tascabili 1995) e Piero Gobetti, Carteggio 1918-1922 (Einaudi 2003).

Gianni D’Amo insegna storia e filosofia al Liceo statale “G. Novello” di Codogno (Lodi). Consigliere comunale di Piacenza, è tra gli animatori dell’associazione politico-culturale “cittàcomune”.

martedì 29 novembre 2011

"Racconto interrotto" il film

Martedì 6 dicembre 2011 
c/o Cittàcomune via Borghetto 2/i - Piacenza
ore 21

"Racconto interrotto"
un film su Piero Gobetti

Piero Gobetti nel racconto degli amici. Una cavalcata attraverso la cultura e la storia d'Italia, seguendo le testimonianze di uomini e donne, semplici e illustri, alla ricerca delle caratteristiche e del significato della lotta di un giovane, stroncato dalla brutalità fascista, per il rinnovamento della società italiana.
 
"Mentre la lettura dei suoi scritti ha infiammato e arricchito la mia fantasia di adolescente - ben accordandosi con quell'altra presenza, più ricca di sfumature e di atteggiamenti, anche morali, che avevo assorbito quotidianamente attraverso la frequentazione di mia madre -, d'altro canto il tentativo di riappropriarmi della figura di mio padre in modo più completo stata piuttosto un'esigenza e una ricerca della maturità" (Paolo Gobetti).

Regia: Paolo Gobetti.
Montaggio: Claudio Cormio, Paolo Gobetti.
Testimonianze: Franco Antonicelli, Celestina Barberis Roglio, Lelio Basso, Riccardo Bauer, Manlio Brosio, Lidia Campolonghi, Pietro Comollo, Luigi Emery, Passerin d'Entrèves, Mario Fubini, Alessandro Aldo Garosci, Igino Giordani, Alfonso Leonetti, Carlo Levi, Augusto Mazzetti, Augusto Monti, Umberto Morra, Pietro Nenni, Filomena Nitti Bovet, Vittorio Parmentola, Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Giuseppe Prezzolini, Ada Prospero Marchesini Gobetti, Giuseppe Rapelli, Camilla Ravera, Leonida Repaci, Franca Reynaud, Luigi Salvatorelli, Natalino Sapegno, Giuseppe Saragat, Umberto Terracini, Giovanni Tribaudino, Andrea Viglongo, Mario Vinciguerra, Paolo Vita Finzi, Ca Zorzi Noventa.
Produzione: Cooperativa 28 dicembre. 

Paolo Gobetti

FILMOGRAFIA
(Aggiornata all'ultima partecipazione al TFF)
Scioperi a Torino (1962, 35'), Lotta partigiana (1975, 60'), Dalla marcia su Roma a Piazzale Loreto (1975, 129'), Cudine 17 novembre 1944 (1979, 18'), Un'altra Italia nella bandiere dei lavoratori (1980, 18'), Spagna 1936-1937 (1978-1981, 55'), La Bahìo - Festa di una valle occitana (1982, 80') , Lu viol (1983, 65'), Le prime bande (1984, 60'), Incontri (1985, 60'), Como libera: il film e la memoria (1986, 45'), La battaglia di Pertuso (1987, 40'), Al tempo delle scale (1987, 25'), Spagna anni Trenta (1990, 50'), Racconto interrotto (1992, 50'), Le stagioni della Resistenza (in dieci quadri e un prologo) (1995, 130').

(scheda tratta da Torino Film Festival http://www.torinofilmfest.org/?action=detail&id=767)

lunedì 21 novembre 2011

Piero e Ada Gobetti

Nel 150° dell’Unità d’Italia, il ricordo di due italiani esemplari
PIERO E ADA GOBETTI

Piacenza, Teatro dei Filodrammatici, via Santa Franca 33

“Cittàcomune” propone, nel 150° anniversario dell’Unità, una riflessione
pubblica su due italiani per molti aspetti esemplari: Piero e Ada Gobetti


Martedì 29 novembre 2011
Piero Gobetti, nella
Torino degli anni Venti

Ne discutono tra loro e con i presenti
Piergiorgio Bellocchio e
Cesare Pianciola

L’incontro ha inizio alle ore 18

Piero Gobetti (1901-1926), pensatore politico di eccezionale intelligenza e precocità, fonda ancora liceale la rivista Energie Nove e nel 1922 La Rivoluzione Liberale (affiancandole la casa editrice, che inalbera il motto greco e alfieriano “Che ho a che fare con gli schiavi?”). Vocazione pedagogica e straordinaria capacità di lavoro gli consentono di raccogliere intorno alla febbrile iniziativa politico-editoriale il meglio dell’intelligenza italiana dell’epoca, dai già autorevoli e affermati Salvemini, Croce, Pareto, Einaudi, ai giovani Carlo Levi, Umberto Saba, Eugenio Montale… Poco più che adolescente, aveva salutato con entusiasmo la rivoluzione russa, i consigli di fabbrica e l’occupazione della Fiat. Collabora a L’Ordine Nuovo di Gramsci con interventi politici e soprattutto come critico teatrale. Del nascente fascismo coglie subito il tatticismo demagogico e il quasi fatale successo: è “l’autobiografia della nazione”. Nel 1923 sposa Ada Prospero, conosciuta negli anni di liceo, fedele compagna, ispiratrice e collaboratrice. Nel settembre del 1924 Gobetti subisce dai fascisti una selvaggia aggressione, che ne minerà la fragile salute. Fonda Il Baretti, di indirizzo più letterario, mentre viene soppressa, per esplicita volontà di Mussolini, La Rivoluzione Liberale. Deciso a continuare la sua attività di scrittore e editore, che gli è inibita in patria, va esule a Parigi dove muore il 15 febbraio 1926, poche settimane dopo la nascita del figlio Paolo.


Cesare Pianciola (Torino, 1939) ha lavorato con Pietro Chiodi come assistente presso la cattedra di Filosofia della storia all’Università di Torino, ha insegnato storia e filosofia nella Secondaria superiore fino al 1994 ed è stato poi docente di “Analisi di testi filosofici” presso la S.I.S. di Torino. Fa parte del Consiglio direttivo del Centro studi Piero Gobetti, del Comitato editoriale de “L’indice dei libri del mese”, della redazione di “école”; è condirettore del trimestrale “Laicità” e autore di moti interventi e articoli sulla laicità dello Stato e della scuola. Ha pubblicato saggi su Marx e il marxismo, sul pensiero francese contemporaneo, su Hannah Arendt, su Piero Gobetti. Nel centenario della sua nascita ha pubblicato Piero Gobetti. Biografia per immagini (Gribaudo 2001).



Piergiorgio Bellocchio ha fondato con Grazia Cherchi e diretto per circa vent’anni “Quaderni piacentini” (1962-1984). Ha esordito nella narrativa con I piacevoli servi (Mondadori, 1966). La sua produzione critica e saggistica è raccolta in vari volumi, tra cui: Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), Eventualmente (Rizzoli,1993), L’astuzia delle passioni (Rizzoli, 1995), Oggetti smarriti (Baldini&Castoldi, 1996), Al di sotto della mischia. Satire e saggi (Libri Scheiwiller, 2007). Dal 1985 al 1993 ha diretto e redatto con Alfonso Berardinelli la rivista “Diario”, di cui è uscita da Quodlibet quest’anno la riproduzione fotografica integrale.È presidente dell’associazione politico culturale “cittàcomune”.

venerdì 11 novembre 2011

impresa_cultura - 16 Novembre ore 21


Mercoledì 16 novembre 2011 ore 21

Teatro dei Filodrammatici
via Santa Franca, 33 - Piacenza
SPETTACOLO TEATRALE

Adriano Olivetti

un sogno possibile
di Laura Curino e Gabriele Vacis

con Laura Curino, Mariella Fabbris, Lucilla Giagnoni
regia Gabriele Vacis
scenofonia-luci Roberto Tarasco

biglietti euro 10 (intero)
euro 5 (ridotto studenti)
prevendite
Teatro Gioco Vita,
tel. 0523.315578 - biglietteria@teatrogiocovita.it)

martedì 8 novembre 2011

Da "Libertà" del 8 Novembre 2011 pag. 13

ARIA DI PRIMARIE CON CACCIATORE, DOSI E D’AMO SEDUTI FIANCO A FIANCO















Per qualche minuto ieri in consiglio comunale la prima fila dei banchi della giunta è sembrata un antipasto di competizione delle primarie del centrosinistra.Seduti fianco a fianco si sono ritrovati,in un primo tempo,i due principali sfidanti in casa del Partito democratico,Francesco Cacciatore (primo da sinistra) e Paolo Dosi. Ai due si è quindi aggiunto Gianni D’Amo,il leader di Cittàcomune pure intenzionato a candidarsi alle primarie di coalizione (foto Cravedi)

venerdì 4 novembre 2011

impresa_cultura - 10 Novembre ore 21


Giovedì 10 novembre 2011 ore 21
Teatro dei Filodrammatici
via Santa Franca, 33 - Piacenza
"In me non c'è che futuro" Ritratto di Adriano Olivetti
Un film di Michele Fasano (Sattva Films Bologna 2011), seconda parte: "Il modello comunitario concreto"


Al termine della proiezione incontro con Michele Fasano
e Alberto Saibene

mercoledì 2 novembre 2011

Cento per Gianni - l'appello ed i sottoscrittori


CENTO PER GIANNI. Perché proponiamo D’Amo alle primarie del Centro-sinistra


Siamo persone con radici ideali, esperienze professionali, storie politiche diverse. Sentiamo l’esigenza di partecipare alle scelte politico-amministrative che riguardano la nostra città, senza conferire deleghe in bianco a rappresentanze precostituite. Pensiamo che le primarie di coalizione del Centro-sinistra, attivando un processo di partecipazione dei cittadini in un momento di crisi profonda della politica, siano lo strumento migliore per scegliere il candidato Sindaco più autorevole. Le primarie consentono di costruire tra tutte le componenti civico-politiche che vi partecipano il giusto clima di fiducia e lealtà, sollecitano il dibattito pubblico ("le primarie delle idee"), aiutano a ridefinire le coordinate valoriali, culturali e programmatiche di uno schieramento alternativo all’alleanza Berlusconi-Bossi. Sono la premessa per far vivere davvero un’esperienza politico-elettorale aperta e plurale, di pari dignità e reciproca responsabilità, senza ospiti né padroni di casa. Le primarie fanno bene alla democrazia, la democrazia fa bene al Centro-sinistra e all’intera città: per questo esprimiamo apprezzamento per l’impegno alle primarie di coalizione (da tenersi a dicembre o gennaio prossimi), assunto a giugno dalla Direzione del Partito democratico piacentino.
Ci accomuna oggi la valutazione che Gianni D’Amo possa svolgere una funzione di raccordo tra società e politica, fornire voce pubblica a una vasta area di impegno diffuso, delusa dai partiti così come sono. Consigliere comunale, promotore dell’associazione "cittàcomune" (impegnata a riaffermare che cultura e politica devono procedere di pari passo, se non vogliono irrimediabilmente impoverirsi), ha attraversato la lunga e appassionata militanza a sinistra con onestà intellettuale, senza abiure e trasformismi. Insegnante e organizzatore culturale, nell’ultimo decennio ha mostrato di essere un amministratore competente e onesto, disponibile ad ascoltare e imparare (dai cittadini e anche dagli avversari), in grado di affrontare i problemi sia in termini di pubblica utilità, che di pratica realizzabilità, valutando costi e benefici. Gianni D’Amo ha dato prova di determinazione e equilibrio in momenti difficili dell’esperienza amministrativa, dalla vicenda ex Acna agli anni di tenace opposizione a un nuovo grande Palazzo di uffici comunali, assumendo posizioni scomode ma lungimiranti. È una persona indipendente, che dice quello che pensa e si sforza di fare quello che dice. Per questo lo sollecitiamo a proporsi come candidato Sindaco alle primarie di coalizione. È necessario fare le primarie del Centro-sinistra, è bene che Gianni D’Amo vi prenda parte.
Con lui condividiamo alcune convinzioni di fondo, che qui proponiamo in estrema sintesi. Qualità e dignità del lavoro, difesa intransigente del territorio e dell’ambiente, dispiegamento dei processi di coesione sociale e cooperazione nel rispetto delle identità culturali di ciascuno vanno perseguiti insieme. L’agire economico di vero e durevole successo è sempre anche un agire etico, orientato oltre il vantaggio momentaneo, in progetti di lungo respiro, nei quali intelligenze e competenze delle donne e degli uomini sono ciò che conta veramente. Le relazioni tra gli uomini e con l’ambiente circostante si determinano reciprocamente: disprezzo di sé e del prossimo e degrado di ciò che ci circonda vanno a braccetto. Non possediamo altra vera ricchezza, altra linfa, che i tesori ereditati dal passato, assimilati e continuamente ricreati da noi. Conservare e far vivere oggi, anche con l’uso intelligente delle nuove tecnologie, ciò che natura, cultura e storia ci hanno consegnato è il progetto più ambizioso e il vero grande "affare" del Terzo millennio.
A Gianni D’Amo chiediamo di incentrare la riflessione programmatica per la Piacenza futura sul diritto-dovere dei giovani a una vita libera e piena, in dignità e responsabilità, oggi, non in un domani che non arriva mai. La vera emergenza italiana nell’Europa odierna è la chiusura di fatto nei confronti delle giovani generazioni. Una nuova speranza può camminare solo con l’intelligenza critica e la passione delle giovani e dei giovani piacentini, nelle cui mani è il futuro della città.

Chiara Agazzi, insegnante; Vittoria Albonetti, già insegnante, impegnata nel volontariato sociale; Paolo Anelli, ingegnere, impegnato nel volontariato sociale; Elisa Anselmi, oncologa Ausl Pc; Marco Arcelli Fontana, già assessore com.le al bilancio, imprenditore; Margareth Argellati, infermiera professionale Ausl Pc; Anna Astorri, artigiano; Mario Avanzini, già bancario; Rinaldo Balduzzi, già sindacalista Cgil, pensionato; Elisabetta Bassi, informatore farmaceutico; Piergiorgio Bellocchio, scrittore, presidente Cittàcomune; Barbara Belzini, cooperatore; Stefano Bernardi, ingegnere; Gianni Bernardini, funzionario Inps; Sergio Bernardini, già naz.le di nuoto, allenatore; Mohamed Berrahou, operaio; Chicco Bertè, già insegnante e assessore com.le sport; Sergio Bertoni, avvocato; Cristina Bianchi, architetto, direttore Scuola edile; Tiziana Bignami, già naz.le atletica leggera, allenatrice; Franco Boiocchi, dip. Iren, già consigliere com.le; Luigi Gegè Boledi, archivista Cineteca Mi; Mara Bonini, presidente Cesvip; Giovanni Bongiorni, già insegnante, psicologo; Francesco Boscarelli, consul. aziendale; Lorenzo Boscarelli, già presidente Tempi ag., consul. aziendale; Livio Boselli, già delegato Arbos, formatore; Marco Bosonetto, insegnante, scrittore; Paolo Maurizio Bottigelli, poeta e organizzatore culturale; Alberto Bricchi, già dipendente com.le, tastierista Grassorbrass rockband; Maura Bruno, collaboratrice Ente sordi; Maria Luisa Cacciatori, insegnante sc. materna; Giovanni Callegari, coordinatore Cittàcomune; Clara Calza, redattrice editoriale; Davide Capra, veterinario; Luca Caputi, avvocato; Piercarlo Cardinali, tecnico chimico, musicista folk; Alberto Casartelli, agronomo; Daria Casartelli, studentessa universitaria; Andrea Chiappini, tecnico informatico; F. Sofia Chiapponi, video&photo producer; Lucia Chiarabini, educatrice asilo-nido; Paolo Colagrande, già Difensore civico, avvocato, scrittore; Daniela Coppola, farmacista; Sandro Corsi, già delegato gruppo Rdb, pensionato; Daniela Cremona, dip. Trenitalia; Benedetto De Vito, ferroviere; Gianfranco Dragoni, già segretario generale Fiom e Cgil Pc; Paolo Favari, artigiano; Sergio Ferri, vicepresidente Inforcoop; Aida Fogliazza, dirigente Ausl Pc; Alberto Fogliazza, autista Tempi spa; Marina Foletti, architetto; Teo Frattini, commesso; Francesco Galilei, studente universitario; Massimo Gardani, tesoriere Cittàcomune; Piercorinno Ghidini, commercialista; Davide Giacobbi, macchinista teatrale; Cinzia Giacomazzi, studentessa universitaria; Mario Giacomazzi, dirigente Ausl Pc; Massimiliano Groppi, tecnico; Giuliano Guidi, radicali piacentini; Guido Lavelli, architetto; Simonetta Lipeti, impiegata Ausl Pc; Rosalba Lonero, operaia; Lino Lovotti, sindacalista Cgil; Cesare Lucca, consigliere Fipav Pc; Lorenzo Mainardi, pensionato; Roberto Manzella, insegnante; Roberta Marchesi, fotografa; Franca Mazzadi, insegnante; Pietro Mazzolini, tecnico coop. Arp; Paola Mazzoni, operaia; Filippo Merli, infermiere professionale Ausl Pc; Alessandro Miglioli, avvocato, già consigliere com.le; Giorgio Milani, artista e designer; Maurizio Mori, sindacalista Fiom; Antonio Mosti, psichiatra, direttore Sert Pc; Luigi Muggiani, promotore finanziario; Carlo Orlandi, pensionato; Francesca Pagani, già insegnante; Lino Paraboschi, già delegato Mandelli, già segretario generale Fiom e Flm; Edoardo Piazza, ex naz.le di rugby, già insegnante, consigliere com.le; Massimo Piepoli, cardiologo Ausl Pc; Stefania Pifferi, responsabile amministrativo; Francesca Pisani, traduttrice; Marco Pisani, direttore dipartimento chirurgia generale Ausl Pc; Giovanna Poggi, insegnante; Emilio Politi, architetto urbanista; Mino Politi, dirigente aziendale, già assessore com.le allo sviluppo economico; Angela Portesi, insegnante; Paola Quagliata, cantante lirica; Stefano Quagliaroli, insegnante, enogastronomo; Anselmo Ramponi, già sindacalista edili e poi segretario confederale Cgil; Fabrizio Redaelli, funzionario comunale; Antonio Resmini, commerciante; Adriano Rizzi, collaboratore scolastico; Ernesto Tino Rossi, regista teatrale; Fabrizio Rossi, assicuratore e dirigente sportivo; Nicolò Rossi, studente universitario; Sergio Rossi, già delegato Schiavi, pensionato; Marco Salami, biologo, maestro scacchista; Mauro Sbuttoni, musicista blues; Alberto Scognamiglio, architetto; Francesco Serio, ferroviere; Simona Soffiantini, insegnante; Carlo Solenghi, architetto; Giancarlo Spezia, docente Università cattolica Pc; Pinuccio Sverzellati, presidente Workoop; Jacopo Tanzi, studente universitario; Marco Tanzi, insegnante, cooperatore sociale; Beppe Tirelli, scultore; Massimo Tirotti, già dirigente cultura Comune di Pc; Roberto Tonelli, incisore; Franco Toscani, insegnante e saggista; Marco Trebbi, dipendente Trenitalia, cantante Grassorbrass rockband; Gennaro Trevisan, presidente Ente sordi Pc; Giacomo Vaciago, Università cattolica, già sindaco di Pc, economista; Marcello Valdini, medico legale; Marco Vegezzi, imprenditore; Fabio Villa, tecnico Eni; Lara Zaghi, tecnico radiologia Ausl Pc; Stefano Zanaboni, presidente Cofies; Mario Zucca, libraio.

venerdì 28 ottobre 2011

impresa_cultura 3 Novembre ore 21


impresa_cultura

Adriano Olivetti 1901-1960
  
Giovedì 3 novembre 2011 - ore 21


Teatro dei Filodrammatici
via Santa Franca, 33 - Piacenza
 
Da Simone Weil a Charles Wright Mills. Le edizioni di Comunità nella cultura italiana del Dopoguerra


Incontro con Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli
Come rivista e movimento omonimi, le edizioni di Comunità nascono nel 1946. I nessi individuo-società, conflitto-socializzazione, umanesino e tecnica sono al centro del catalogo sin dagli anni Cinquanta. Vengono proposti al lettore italiano Emmanuel Mounier e Jacques Maritain, Kierkegaard e Simone Weil, la tradizione della sociologia antologizzata da Charles Wright Mills,  Lewis Mumford e Hannah Arendt...
Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli da decenni riflettono sul rapporto politica-cultura, sull'industria culturale, sulla sociologia  della letteratura. Di Bellocchio e Berardinelli nel 2011 è uscita la Riproduzione fotografica integrale di Diario (1985-1993), Quodlibet.
 
Piergiorgio Bellocchio ha fondato con Grazia Cherchi e diretto per circa vent’anni “Quaderni piacentini”. Ha esordito nella narrativa con I piacevoli servi (Mondadori, 1966). Dal 1985 al 1993 ha pubblicato “Diario”, rivista redatta con il solo Alfonso Berardinelli. La sua produzione critica e saggistica è raccolta in vari volumi, tra cui: Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), Eventualmente (Rizzoli,1993), L’astuzia delle passioni (Rizzoli, 1995), Oggetti smarriti (Baldini&Castoldi, 1996), Al di sotto della mischia. Satire e saggi (Libri Scheiwiller, 2007). È presidente dell’associazione politico culturale “cittàcomune”.

Alfonso Berardinelli ha insegnato Letteratura contemporanea all’Università di Venezia fino alle dimissioni volontarie nel 1995. Ha pubblicato tra l’altro: Il critico senza mestiere (Il Saggiatore, 1983), La poesia verso la prosa (Bollati Boringhieri, 1994), L’eroe che pensa (Einaudi, 1997), La forma del saggio (Marsilio, 2002 e 2008) e, con H. M. Enzesberger, Che noia la poesia (Einaudi, 2006). Tra i suoi ultimi libri: Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione (Quodlibet, 2007); Poesia non poesia (Einaudi, 2008).

sabato 22 ottobre 2011

impresa_cultura 27 Ottobre 2011 ore 21

IMPRESA_CULTURA. Adriano Olivetti 1901-1960 è un percorso in quattro serate (cinque incontri),
che attraverso cinema, teatro, riflessione sociologico-letteraria vuol riprendere, dopo mezzo secolo,
la straordinaria esperienza industriale culturale sociale e politica allora animata da Adriano Olivetti.


Piacenza-Teatro Filodrammatici, via Santa Franca 33, 
giovedì 27 ottobre h 21

"IN ME NON C'E' CHE FUTURO..."

 
Ritratto di Adriano Olivetti


Un film di Michele Fasano, Sattva Films, Bologna 2011, prima parte 72 min.
"Alle origini di un modello".
Al termine della proiezione (a ingresso gratuito)

incontro con il regista e Renato Rozzi, psicologo del lavoro

Michele Fasano, regista indipendente, ha sapientemente montato immagini di repertorio, documenti storici, testimonanze d'epoca e attuali, con la preziosa collaborazione di testimoni privilegiati di quella stagione. Tra questi, Renato Rozzi, con Cesare Musatti e Francesco Novara animatore del Centro di Psicologia Olivetti negli anni Sessanta. Psicologo di formazione psicoanalitica e fenomenologica, Rozzi ha in seguito insegnato presso le Università di Trento, Cosenza, Urbino e Verona. In anni recenti ha curato, con Francesco Novara e Roberto Garruccio, il volume Uomini e lavoro alla Olivetti, Bruno Mondadori, 2005.

impresa_cultura - Adriano Olivetti 1901-1960



clicca sulla locandina per leggere il programma

martedì 18 ottobre 2011

Verso le comunali 2012 - l'Assemblea di S. Ilario del 15 Ottobre 2011

Vi proponiamo una galleria di ritratti e alcune immagini dalla partecipata assemblea di S. Ilario del 15 ottobre, in una sala che difficilmente si riempie così tanto per esponenti della politica locale. Una manifestazione che ha raccolto un successo grande ma non inaspettato. Un riconoscimento delle attività politiche e culturali svolte da Gianni D'Amo e dall'associazione cittàcomune nel corso degli anni.
Grazie e buon lavoro a tutti
Foto di Sergio Ferri

venerdì 7 ottobre 2011

Verso le comunali 2012

Piacenza chiama Milano: "D'Amo il nostro Pisapia"
L'ex sindaco Giacomo Vaciago sostiene l'esponente di Cittàcomune in vista delle primarie del centrosinistra per il candidato sindaco


giovedì 29 settembre 2011

martedì 6 settembre 2011

Edoarda Masi: ricordo di una grande intellettuale marxista




La morte di Edoarda Masi, notizia che come da sue disposizioni è stata comunicata a distanza di un mese circa, ci lascia un grande vuoto. Per ricordarla pubblichiamo questo link al sito di Radio Popolare e di seguito un'intervista apparsa sulla rivista Kamen.




INTERVISTA A EDOARDA MASI[1]

Per gentile concessione della rivista di poesia e filosofia Kamen’[2]
E.M. – Nel XIX secolo è risultata chiara, ed è stata analizzata nella teoria economica e sociologica, la contrapposizione fra capitale e lavoro e la complementarietà dei due poli. Essendo il lavoro l’elemento vitale del capitale, la lotta contro il capitale cresceva dall’interno dei meccanismi di quest’ultimo. Il lavoro si incarnava nel proletariato industriale – non solo avversario del capitale perché oppresso, sfruttato ecc., ma perché sua componente necessaria e contraddittoria. La possibilità di uscire da quel sistema si fondava sul lavoro, che ne era a un tempo la componente base e il nemico radicale.
K. – Il paradigma del lavoro era proprio quello.
E.M. - Sì, non si trattava solo di ideologia: della validità di quella teoria abbiamo una prova storica in centocinquanta anni di lotta.
K. - Era un corrimano, uno strumento razionale che permetteva di mettere in evidenza una prospettiva, un certo numero di fatti. Le due classi sono un portato storico della rivoluzione industriale: non c’è l’una senza l’altra, in un legame fondamentale.
E.M. – Nella sua trionfale evoluzione il capitale ha finito, nella fase presente, con il divorare letteralmente sia la classe proletaria sia quella borghese. Nel Manifesto del Partito comunista c’è un’espressione sottolineata da Hobsbawn, a cui di solito non si bada: Marx dice grosso modo che, a un certo momento, il capitale dovrà essere superato dal lavoro oppure si avrà la fine di entrambe le classi in lotta. Credo che proprio questo si sia verificato. Una cosa è la borghesia, una cosa è il capitale. Questo è un meccanismo economico, mentre la borghesia è la classe dirigente che lo ha gestito in una ascesa sociale durata secoli fino al trionfo nell’Ottocento. Oggi gli eredi della borghesia non hanno più il carattere di classe dirigente. Il tratto di una classe dirigente è quello di difendere sì i propri interessi economici, ma nello stesso tempo di riuscire a rappresentare in qualche modo anche interessi generali.
K. – Per un’etica di classe?
E.M. - Prima che per un’etica, per necessità di fatto. Ad esempio, prendiamo la miserabile piccola borghesia italiana. Al momento dell’unità, per poter gestire lo sviluppo ha dovuto promuovere l’istruzione universale, costruire le infrastrutture, creare i servizi pubblici, ecc. Questo era nell’interesse anche pubblico. Non le era dato perseguire i propri interessi di classe senza costruire un’entità superiore, lo stato-nazione; che finiva col rappresentare tutti i cittadini, pur nelle differenze sociali.
K. – L’idea che ha interpretato ad esempio, in epoca più recente, anche Olivetti.
E.M. - Sì, Olivetti in modo ancora più accentuato perché era anche un innovatore. Esisteva una dimensione della politica che non era la stessa identica dimensione della struttura economica.
K. – C’era un senso del privato e del pubblico, di una loro suddivisione che oggi non c’è più. Non è il frutto di un certo Sessantotto?
E.M. - Secondo me, no; è il frutto di una evoluzione del capitale. Oggi il capitale dominante è in primo luogo quello finanziario, che è cresciuto enormemente; e poi il capitale speculativo. La recente crisi asiatica, ad esempio, è dovuta al capitale speculativo: un capitale che pretenderebbe, in certo qual modo, di eliminare il lavoro e vivere su se stesso, come fosse il gioco della roulette. È un assurdo, poiché lo stesso capitale finanziario, che genera la speculazione, si basa sul lavoro, sulla produzione. Se non ci sono merci non si ha profitto: se non si ha profitto, non si ha speculazione. La tendenza del capitale, tendenza suicida, è quella di eliminare oggi il lavoro che lo minaccia.
K. - In che senso lo minaccia?
E.M. – Perché il lavoro pretende sempre più di essere interamente remunerato, a scapito del profitto e quindi della possibilità stessa dell’accumulazione e della riproduzione allargata – la cosiddetta “crescita”, senza la quale la struttura del capitale crollerebbe.
Uno dei mezzi con cui il capitale oggi (ma la tendenza era già visibile nell’Ottocento) tende in modo ancor più clamoroso a liberarsi del lavoro, con le sue giuste rivendicazioni, è la colonizzazione. Già Rosa Luxembourg aveva elaborato una teoria secondo me valida nella sostanza, nonostante le critiche ricevute per le carenze nei calcoli tecnico-matematici: il capitale ha avuto bisogno di espandersi fuori delle sfere industrializzate, perché vi trova manodopera disponibile, senza limiti, a costi bassissimi. Oggi la tendenza si è estesa al punto di coinvolgere non solo la manodopera industriale malpagata, ma il mondo contadino, dove le transnazionali sono penetrate direttamente attraverso il sistema dell’agribusiness, dei brevetti dei semi, ecc. Vi è quindi un controllo diretto dell’agricoltura nei paesi dove i lavoratori per la maggioranza coltivano la terra o abitano nelle zone rurali. Il controllo e la rapina colpiscono pure gli agricoltori benestanti, soggetti alle transnazionali che, in luoghi ricchi dal punto di vista naturale, si appropriano delle sementi e le brevettano diventandone i proprietari. Perfino i floricoltori di San Remo, ad esempio, sono obbligati ogni anno a ricomprare i semi dei loro fiori, che non appartengono più al regno della natura: hanno subito modifiche biologiche per cui spesso non si riproducono più nel secondo anno. E anche quando tecnicamente non è così, lo è comunque sul piano giuridico, perché i semi brevettati non sono proprietà di chi li usa. Negli Stati Uniti questo è accaduto da tempo anche per il pollame, le uova, ecc. Sono convinta che una delle campagne importanti da fare sia quella contro la cosiddetta “proprietà intellettuale” – che in questo come in ogni altro campo ha ben poco a che vedere con la difesa dei “prodotti dell’intelletto”, ma è uno strumento di dominio economico delle grandi corporazioni.
Nella struttura in apparenza sfuggente assunta oggi dal mondo capitalistico, sembra che non riusciamo a trovare  l’equivalente di quello che era stato un tempo il lavoro, la forza che possa combattere strutturalmente questo sistema. Si fanno manifestazioni contro la guerra: il fronte dei partecipanti è molto ampio e vi sono tante motivazioni eterogenee. Nel complesso, però, sono motivazioni etiche e interne al sistema stesso, prive di un progetto alternativo.
K –  è già molto questo però!
E.M – No. è  molto nel senso che si è formata una massa di gente che protesta. Ma poi si trova impotente, perché non è in grado proporre niente che sia alternativo a questo sistema.
K. – Ma l’etica è per noi strutturale, come l’arte, il pensiero ecc... Che ne pensa?
E.M. – Le motivazioni etiche, come quelle utilitarie, sono il punto di partenza delle posizioni assunte dagli individui e delle loro azioni. Dopo di che è necessaria un’analisi della realtà – risalire ai motivi e alle cause che generano i fatti che ripugnano alla nostra visione morale – e l’elaborazione di progetti alternativi e di strategie politiche. Diversamente, saremo solo quel che Hegel chiamava “anime belle”.
K. – Ma riprendiamo il discorso sulla incapacità di ripensare un progetto alternativo: in tutto questo non si rimette in gioco la funzione  degli intellettuali e della politica e la crisi della ragione illuminista, in termini francofortesi, l’avanzare della ragione strumentale, in un sistema della ragione che diventa autoreferenziale in una corsa dei saperi e delle discipline all’autoreferenzialità?
E.M. –  Questo perché la dialettica dell’illuminismo ha percorso la sua parabola. Se poi ci riferiamo al lavoro specifico degli intellettuali, bisogna riconoscere che non tutti, ma una loro minoranza fra cui non pochi americani, a cominciare da Chomsky, l’analisi di come funziona questo orrendo sistema ce la fanno. Disponiamo di tutti i dati, intere biblioteche, per vedere come tutto ciò funziona. Quello che non viene fatto è il passaggio ulteriore alla politica.  Constatiamo, per esempio, che dietro alla guerra in corso vi sono da un lato gli interessi petroliferi, dall’altro il disegno di egemonia mondiale degli Stati Uniti (che devono impossessarsi dell’Asia occidentale e centrale per poi procedere verso oriente, mettendo in difficoltà anche l’Europa). Questo è abbastanza chiaro. Quel che non viene spiegato è il rapporto tra questa prassi e i fatti strutturali che la determinamo. Perché gli americani, che in fondo hanno una grande tradizione democratica e proprio nel settore più conservatore sono stati a lungo isolazionisti, sono passati a una politica di espansione globale?  Che cosa c’è dietro? Perché questa trasformazione? è su questo che secondo me oggi non si fa più l’analisi. Un tempo si sarebbe detto, si fa l’analisi della sovrastruttura e non della base economica strutturale.
K.– Ma un’economia che si basa prevalentemente sul capitale finanziario può stare in piedi? E non è un effetto di quell’ansia e autonomia schizofrenica dei saperi che non fanno più struttura?
E.M. –  Questa è una situazione di suicidio, che però trascina nella morte il mondo intero, anche sul piano ecologico, assolutamente distruttiva. Uno dei grandi pensatori di oggi, István Mészáros, ungherese allievo di Lukács, che lasciò l’Ungheria nel 1956 e da molti anni è professore di filosofia in Inghilterra, ha pubblicato nel ‘95 l’ultimo grosso libro, intitolato Oltre il capitale. È stato tradotto in  molte lingue, e ha avuto in America Latina più di una edizione in pochi mesi. Rovesciando con una battuta un’affermazione di Schumpeter, secondo il quale il capitale procede a una distruzione costruttiva, Mészáros dice che attualmente il capitale costruisce la distruzione. È effettivamente così. Si uscirà dallo stallo? Personalmente ho poca fiducia che se ne esca partendo dall’Europa, è più probabile che dall’Asia e da una parte dell’America Latina vengano dei cambiamenti.
K. – Un pensatore come Amartya Sen, l' economista, che dici di lui?
E.M. – è bravo, ma non è solo, tutta l’India è ricca di vita intellettuale, politica, scientifica. Anche il movimento delle donne indiane produce pensiero.
K. – Non è come noi che siamo a fare il nulla.
E.M. –  No, non si può dire per gli individui, ma è nel complesso che l’Europa in questo momento... Vedi, anche la resistenza francese che è ammirevole rispetto alla schifezza di casa nostra, secondo me è residuale, si basa ancora sulle idee golliste dello stato-nazione. Allora, perché  Francia sì e Italia no? Perché i francesi godono di un’enorme eredità che li rende ancora forti, uno stato-nazione che risale a Giovanna d’Arco e anche prima, a Luigi IX; e poi l’eredità della rivoluzione, e quella napoleonica. Lo stato napoleonico non è uno scherzo. Napoleone non è stato solo un guerriero, ha costruito un sistema giuridico, il codice civile, la grande struttura amministrativa... Tuttavia questa eredità è residuale.
K. –Ha detto un’amica e storica francese che questa attività residuale ha coalizzato tutto il paese, destra e sinistra.
E.M. – Meno male, ma non apre a un futuro. è un po’come la Toscana in Italia: è il paese dove si sta meglio, regge su un passato. Mentre per esempio Milano è uno sfacelo. Ma in un certo senso Milano è più avanti della Toscana, giacché per lo sfacelo si deve passare.
K. – Edoarda Masi è nota al pubblico colto soprattutto come sinologa. Com’è la situazione attuale della Cina, rispetto a quella di anni fa.
E.M. –  Una giovane giornalista del Manifesto, molto brava, Angela Pascucci, che si occupa degli esteri ma soprattutto della Cina, è stata di recente a Shanghai e ha scritto un articolo sulla FIAT di Nanchino. Mi aveva mandato questo pezzo per un parere; lei non ne era soddisfatta, eppure era un articolo ottimo. Le ho detto che non deve preoccuparsi se non è soddisfatta di quello che ha scritto perché oggi scrivere sulla Cina è difficilissimo, a meno che non si ripieghi sulla critica letteraria; cosa relativamente agevole, perché hanno scrittori notevoli, sia narratori che poeti. Hanno dei poeti straordinari. I cinesi per tradizione hanno sempre avuto un grande poesia. é un paese che si esprime in poesia.
K. – Sono tradotti in italiano questi poeti?
E.M. – Sì, in parte. Tradurre la poesia cinese è straordinariamente difficile, specie in italiano. È leggermente più facile tradurla in inglese. La lingua cinese non è flessa ed è molto sintetica. La lingua europea più sintetica e meno flessa è l’inglese. Se hai un verso cinese di cinque sillabe, in italiano diventa di  venticinque sillabe. È necessario un vero poeta per tentare un equivalente. Questo vale per qualsiasi poesia, ma per la poesia di una lingua così diversa l’ostacolo è maggiore. Allora, alcuni fra i più grandi traduttori non poeti scelgono di fare quelle che Fortini chiamava traduzioni di servizio. Come nelle versioni interlineari, ti dicono il senso parola per parola, ti dicono il suono di ogni carattere cinese, e poi dànno una semplice versione in prosa del testo. È il metodo seguito da David Hawkes per Tu Fu. (Per il suono adotta la pronuncia di oggi, diversa da quella dell’epoca Tang – Tu Fu è dell’ottavo secolo. Tuttavia, pur essendo cambiato il suono, le rime rimangono nel passaggio alla pronuncia odierna, come pure, naturalmente, i toni.) Hawkes aggiunge una breve esposizione sulle circostanze in cui il testo è stato scritto; segue l’esegesi sulla forma, sulla metrica, che in quell’epoca era rigidamente regolata. Con questo metodo sono riuscita a far leggere la poesia in cinese a gente che della lingua cinese non sapeva nulla. Anche François Cheng, sinologo francese, traduce con questo sistema. Invece il grande Arthur Waley traduceva in inglese direttamente e riusciva a farlo bene, favorito comunque dalla lingua inglese.
I poeti contemporanei sono particolarmente difficili da tradurre, sono poeti di avanguardia e per di più con molti riferimenti alla poesia tradizionale. Sono di difficile lettura anche per i cinesi. Nell’opera di traduzione è benemerita Claudia Pozzana, che è lei stessa autrice di versi e da anni segue la nuova poesia cinese. Ha il merito di pubblicare sempre le sue traduzioni col testo originale a fronte. Ha tradotto bene, per esempio, Yang Lian. Eppure devo dire che quando Yang Lian è venuto a Milano e ha fatto ha fatto una lettura dei suoi versi, è stata una cosa straordinaria, era bello sentire l’originale, la forza dell’originale. La traduzione ti aiuta, se non avessi avuto la traduzione, forse non avrei capito neanche il senso; però molto va perduto. Non è facile tradurre neanche i prosatori contemporanei, ma per i poeti è veramente difficile.
Dicevo che parlare della Cina attraverso la mediazione degli scrittori è più facile. È un paese immerso in tremende contraddizioni, eppure è estremamente vitale. C’è la critica, c’è il pensiero, c’è la scrittura, è un paese culturalmente in effervescenza. È impossibile prevedere se procederà verso una crescita o verso un’involuzione (indipendentemente dal successo economico e politico, incontestabile).
Un giudizio sulla situazione politica è quasi impossibile. Un giudizio politico, per quanto si voglia distaccato e obiettivo, comporta una presa di posizione dell’osservatore. Dobbiamo tenere in considerazione che oggi la Cina si presenta come possibile bersaglio futuro degli Stati Uniti nella loro pretesa di egemonia sul mondo. Di fronte a una situazione simile, non solo chi per motivi di studio e di frequentazione ha come me in quel paese una seconda patria, ma anche qualunque persona civile non può non schierarsi dalla parte della Cina, potenza pacifica che rischia di essere aggredita e strangolata. Il problema delle sfere dirigenti americane è su come sia meglio  strangolarla. Discutono su questo: basterà la penetrazione capitalistica per controllarla? Oppure no, giacché con lo sviluppo del capitale crescerà come grande potenza indipendente, sfida e ostacolo alla nostra egemonia globale? meglio allora aggredirla anche militarmente. Il dilemma è di questo tipo, riguarda il come strangolarla. Su questo piano la Cina va comunque appoggiata, senza molte distinzioni fra popolo e governo.
D’altra parte chi studia la storia sociopolitica della Cina è portato a un atteggiamento fortemente critico di fronte all’attuale governo. Per esempio, hanno fatto di tutto per entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio. Ma apertura al mercato con il WTO significa subalternità. Hanno puntato sull’investimento di capitali esteri e sulla produzione per l’esportazione: il che li mette in condizione d’essere ricattati e di possibile instabilità. La situazione economica interna è spaventosa perché spaventosa è la forbice che dal punto di vista del reddito e delle condizioni di vita divide i vari strati della popolazione. C’è una minoranza piccolissima straricca, e un buon numero di abitanti delle maggiori città che se la cava: un tenore di vita inferiore al nostro ma decente. Il sessanta per cento della popolazione vive nelle campagne e sta sempre peggio. La riprivatizzazione della terra coltivabile – per altro assai scarsa – ha prodotto l’espulsione dal lavoro di un gran numero di persone. Si è tornati a un fenomeno proprio dell’epoca prerivoluzionaria, la formazione di un “popolo vagante” di centinaia di milioni, migranti interni per miseria totale, che si accampano in baraccopoli ai margini delle città.
K. – è sottoproletariato urbano?
E.M. – Non è tanto un sottoproletariato, è un vero e proprio proletariato perché si tratta di lavoratori, sottopagati e supersfruttati. Sono l’equivalente degli immigrati da noi (prima dal sud al nord, ora dai paesi asiatici, africani, latinoamericani). Lo sono anche amministrativamente. Per esempio in zone ricche come Shanghai. La Cina è divisa in province intese alla latina, una provincia ha le dimensioni di uno stato europeo. Shanghai e Pechino, che sono le città più grandi, hanno una amministrazione propria, non fanno parte della provincia che hanno intorno, ma formano come una provincia a sé.  L’amministrazione di Shanghai per accogliere quelli che vengono dalle altre province richiede ben tre permessi di soggiorno: uno di polizia, uno per l’alloggio, e un contratto di lavoro. Senza di questi, se uno viene beccato viene messo in un centro di detenzione temporanea. È interessante questa analogia con quanto accade da noi, a prova che non si tratta di un meccanismo razzista, ma del frutto di un sistema economico, tanto da presentarsi anche fra abitanti della stessa nazionalità.
Questi irregolari sono in parte tollerati perché sono lavoratori non protetti, a basso salario, che vengono adoperati principalmente nell’edilizia, dove si costruisce con velocità sbalorditiva, in pochi mesi si trasformano le città. Questi operai lavorano a cottimo di gruppo, se il gruppo entro il termine non consegna il lavoro, non viene pagato, semplicemente. Sono sistemi brutali di capitalismo selvaggio. A volte a profitto di capitale misto cinese e estero, a volte di solo capitale cinese. Il capitale estero è poi spesso di cinesi all’estero. Esiste una Cina della costa diversa dall’interno e dal nord, dove prevale il commercio. Già nel passato commercianti e anche banchieri cinesi si sono diffusi per l’ambiente del Pacifico. Gente che manovra denaro in Indonesia, nelle Filippine, e fino negli Stati Uniti...
 K. – La Cina rimane ancora in gran parte un paese rurale?
E.M. – è rurale nel senso che la maggioranza della popolazione vive in campagna. Maria Regis diceva che l’avvenire della Cina può essere solo industriale e non rurale. Benché abbia una grande estensione, la terra coltivabile è scarsa. La maggior parte della terra è fatta di deserti e montagne. Rispetto all’enorme popolazione sempre in crescita, anche col migliore dei sistemi di coltivazione  non sarebbe in grado di nutrire i suoi abitanti. Ha sempre importato cereali, anche nell’epoca di Mao importava cereali dall’Australia, dal Canada... Non è un paese che possa contare su un’agricoltura ricca, come certi paesi dell’America Latina, rovinati per altri motivi. Dopo la morte di Mao, nei primi anni del governo di Deng Xiaoping, c’è stato un relativo miglioramento delle condizioni di vita in una parte delle zone rurali, grazie a una politica di prezzi che favoriva i prodotti agricoli. Ma in generale i contadini stavano meglio semplicemente perché si erano messi a fare una quantità di mestieri, diciamo di piccolo commercio, sul quale i più abili o furbi o fortunati hanno lucrato, a danno di altri. La terra è stata ridistribuita ai coltivatori – misura inopportuna data la estrema scarsità di terra coltivabile. A ogni famiglia tocca una superficie coltivabile microscopica, che non consente ai suoi membri di mantenersi in vita. Anche prima delle riforme socialiste un certo grado di cooperazione era indispensabile. L’unico modo per poter sopravvivere è collaborare. Un gruppo di famiglie, una cooperativa, una comune potevano acquistare e impiegare utilmente macchine agricole e altri mezzi di produzione, proibitivi e anche eccessivi per la singola famiglia.
La collettivizzazione degli anni Cinquanta non ha avuto il carattere drammatico che aveva avuto in Russia. In Russia una parte dei contadini era contraria, non così in Cina, dove si è trattato di un fenomeno semispontaneo, partito dalla base. Il disaccordo ci fu in seguito, quando si tentò nelle comuni una sorta di “militarizzazione” della vita quotidiana, che ai contadini non piaceva. L’idea di mangiare alla mensa invece che a casa era senza dubbio più razionale, si risparmiavano soldi, tempo e fatica; ma a una famiglia contadina piace mangiare a casa sua secondo la tradizione. Certi eccessi non sono piaciuti ai contadini, ma l’idea di fare le cooperative era bene accetta.
La redistribuzione della terra ha finito col portare molti alla miseria, alla fuga. Il più furbastro riusciva ad accaparrarsi la terra migliore, poi prendeva gli altri come braccianti (ora è consentito) e cercava di produrre il più possibile, sfruttandoli e riducendone il numero al minimo. Così è cominciata l’enorme fuga, e in certi casi perfino l’abbandono della terra – un paradosso in un paese che non ha terra sufficiente per nutrire i suoi abitanti.
La burocrazia cinese è particolarmente brava, ha alle spalle più di duemila anni di esperienza. Finora è riuscita a stare in equilibrio in una situazione assurda, in cui per un verso si continua il controllo statale sull’economia e per l’altro si apre al mercato internazionale: due cose che fanno a pugni. Finora si sono barcamenati, naturalmente con una serie di contrasti: fra poteri locali e centrale, la connivenza fra privati e funzionari statali, con corruzione a livelli incredibili.
K. – E Tien an men?
E.M. – Tien an men è stato uno dei risultati di questa politica. Come è stata diffusa nel mondo dalla CNN, la faccenda è apparsa centrata unicamente sulla rivolta studentesca, si è omesso il fatto che mentre gli studenti protestavano a piazza Tien an men, quattro milioni di cittadini di Pechino erano in rivolta, e poi milioni e milioni di cittadini delle grandi città della Cina. C’è stata la rivolta guidata dai sindacati liberi. I primi militari inviati a domare la folla sono stati pacificamente persuasi da questa a desistere: le donne di Pechino mettevano i loro bambini in braccio ai soldati. Allora per “riportare l’ordine” hanno dovuto mandare soldati da province lontane che parlano altri dialetti e che non potevano comunicare con la popolazione. Era stato loro raccontato che a Pechino c’era una rivolta contro il socialismo e bisognava domare i controrivoluzionari. Quei poveracci hanno condotto l’operazione senza sapere quel che facevano, non potendo comunicare. Non si trattava solo degli studenti nella piazza, era in rivolta gran parte della Cina urbana. I motivi dell’insurrezione sono tanti, è l’insieme dei motivi per cui la popolazione nelle sue varie componenti era contro la politica governativa. Per spiegarli occorrerebbe una lezione di più ore sulla storia della Cina. Fra gli studenti le motivazioni erano abbastanza confuse, una rivendicazione da un lato per la democrazia, dall’altro per il benessere del popolo. Un amico cinese mi diceva che quelli di Tien an men erano principalmente figli di quadri, si trattava cioè di una faccenda quasi interna al partito. Però hanno innescato una rivolta generale del popolo. Questo non è nuovo in Cina. Gli studenti sono stati quelli che hanno innescato anche la rivoluzione culturale.
K– Di Edoarda Masi, oltre ai suoi libri, si conosce poco, che puoi dire?
E.M. –  Ho avuto una vita in fondo di piccola borghese italiana piuttosto comune, salvo il fatto che sono andata in Asia. Oggi tutti i giovani che studiano il cinese vanno in Asia. Ho studiato a Parma. Quando ho finito il liceo i miei professori mi hanno detto che dovevo studiare fisica, e avevano ragione. Io ero liberissima di scegliere, mio padre era una persona eccezionale, avanti di tre generazioni, anche per il modo di educare alla libertà. Però esisteva un influsso indiretto, mio padre era un uomo di lettere, e mi appariva naturale orientarmi verso le lettere.
K. – Lo dava per scontato?
E.M. – Lo davo io per scontato. Ho finito il liceo nel 1944 durante l’occupazione tedesca, ho anche saltato un anno perché ero stanca di andare a scuola. Sono del 1927 e avevo saltato un anno anche in prima elementare. A Parma non c’era la facoltà di lettere, c’era a Bologna, però a quel tempo non c’erano neanche i treni, c’era la guerra. Allora mi sono iscritta a legge a Parma, sapendo che poi avrebbero consentito il passaggio di facoltà. Dopo la liberazione ho fatto il passaggio a Bologna, ma è durato un mese e mi sono stufata. Voi non avete idea, mica esistevano i treni per andare da Parma a Bologna, mica esistevano le automobili private. Neanche parlarne, forse qualcuna. Dovevi andare con altra gente a dei posti di blocco fuori città, dove gli alleati controllavano il traffico. Lì si aspettava che passassero dei camion e ci si faceva caricare. I camion erano principalmente di due tipi: militari degli alleati, oppure camion di quelli che facevano la borsa nera da sud a nord. Dal momento in cui c’è stata l’unificazione c’era uno squilibrio enorme di prezzi fra il sud inflazionato e il nord, e su questo giocavano i borsari neri. Mi ricordo che una volta tornai da Bologna in cima a un enorme catasta di limoni che veniva dal sud. Comunque era una vita impossibile, non si poteva studiare in quelle condizioni. Allora con un’amica decidemmo di rimanere a legge a Parma. Così mi sono laureata in legge. E non mi dispiace nemmeno perché è stato un allargamento di orizzonti, data l’educazione tutta letteraria ricevuta a casa.
K. – La stessa cosa ha detto Piero Bertolucci dell’Adelphi, che si è laureato in legge, poi per caso un giorno è andato a sentire le lezioni di Colli ed è rimasto folgorato dalla filosofia. Però anche lui è laureato in Legge.
E.M. – Le donne a quel tempo non potevano entrare in magistratura, ma io non ci pensavo nemmeno, neanche l’avvocato volevo fare, non mi piaceva. Ma la laurea in legge dà accesso a quasi  tutte le professioni “umanistiche”. Comunque, l’aspetto nuovo per me rispetto al liceo è stato lo studio della storia del diritto pubblico. é un modo di studiare la storia che nel liceo non c’è, la storia delle istituzione non si fa. Un modo di fare la storia d’Italia sconosciuta nel campo dei letterati. E poi si scopre che i migliori testi di letteratura latina sono quelli dei giuristi, sono testi meravigliosi di grande sintesi e di grande razionalità, dove appare il genio propriamente latino.
Vedi, per esempio, la definizione della violenza morale: «Quamvis  si liberus essem noluissem tamen coactus volui».
Dopo la laurea in legge, la prima esigenza era lavorare subito, qualunque lavoro. In questo senso la mia generazione è molto diversa da quelli che oggi volentieri resterebbero a casa della madre fino a cinquant’anni, se potessero. è vero che ci sono condizioni di lavoro difficili, che non è facile trovare casa e lavoro, però in queste condizioni la gente si assesta... Io ho avuto la fortuna che la mia adolescenza, tarda adolescenza, i miei diciassette anni, hanno coinciso con  la Liberazione. La storia d’Italia è stata in armonia con la mia crescita personale. L’entusiasmo, veramente grande nei primi anni dopo la Liberazione, ha coinciso per me con il momento in cui uno apre gli occhi sul mondo. È un dato generazionale: tutte le mie compagne, donne, figlie della gente per bene di Parma (una categoria non particolarmente brillante per spirito d’indipendenza), tutte volevamo lavorare il più presto possibile. Era un desiderio d’indipendenza, non volevamo dipendere dai genitori. C’era per me anche la considerazione di mio padre, che era un funzionario statale. Gli stipendi, fino agli anni Sessanta, non ti permettevano quasi di vivere, essendo dirigenti statali – quindi poveri. Allora perché dovevo farmi mantenere da mio padre? Lo trovavo anche immorale. Avrei avuto la possibilità di restare all’Università, ma allora era ancora peggio di adesso: avrei dovuto lavorare gratis per anni. E poi, pur andando d’accordo con i genitori e benché non mi abbiano mai ostacolata in nulla, c’era il desiderio di indipendenza, volevo contare sulle mie forze.
K. - Sei figlia unica?
E.M. – No, ho un fratello, un po’ più giovane. Al primo concorso che c’è stato per le biblioteche, ho colto l’occasione. Allora erano concorsi piuttosto difficili. Ho lavorato per un anno alla Nazionale di Firenze. Ci stavo benissimo, ero contenta, c’erano i colleghi giovani con cui ci divertivamo...
K. - Giovanni Semerano era alla Nazionale di Firenze?
E.M. – Lavorava alla Marucelliana. Direttrice della Nazionale era la Mondolfo, allieva e amica di Giorgio Pasquali. Miei colleghi erano Umberto Albini, grecista, entrato col mio stesso concorso, Martini, che ha lavorato in seguito in una biblioteca dell’ONU, Casamassima, poi diventato direttore  della Nazionale. Eravamo stati reclutati quasi tutti contemporaneamente, nei primi concorsi del dopoguerra dopo anni di stasi. Ero felice e contenta, ma non potevo sopravvivere, letteralmente, con lo stipendio, anche avendo trovato una pensione di bravissima gente che mi nutriva bene (per lo meno mangiavo e avevo una cameretta). Però pagati quel mangiare e quella cameretta, non potevo comprarmi più nulla, non era possibile.
I miei si erano trasferiti a Roma e c’era una casa grande... A Roma ci sono tante biblioteche, mio padre dirigeva allora l’Angelica, non potevo essere una dipendente di mio padre... Sono andata alla Biblioteca Nazionale, che era nella confusione più completa. Venivo da quella di Firenze che era diretta bene, bene ordinata, e lì mi sono trovata nel caos. Gli anni Cinquanta, gli anni di Roma, sono stati per me anni bui, i più brutti della mia vita. Roma è una città faticosissima per chi non abita in centro e noi abitavamo in periferia. Tu passi la giornata sui mezzi di trasporto. Mi ero fatta un’automobilina, una Topolino usata, ma anche così per arrivare a casa dalla biblioteca impiegavo più di un’ora. Per fortuna facevamo orario continuato, però arrivavo a casa alle tre, mangiavo, e dopo cadevo in letargo. Se dovevo uscire, si trattava di ricominciare, riuscivo ad arrivare in centro alle sei. Questo dei tempi di trasporto è un aspetto importante, può bloccarti la vita.
Roma è una città bellissima, e mi era familiare come i corridoi di casa mia, però è una città ministeriale e l’odioso ambiente burocratico romano aveva delle propaggini anche nelle biblioteche. Mentre le biblioteche fuori Roma in fondo erano dei regni indipendenti. A Roma finivano per essere tutti parenti, amici e imparentati con i funzionari e gli impiegati dei ministeri, c’era una presenza burocratico-ministeriale anche dentro la biblioteca.  Poi, sulla Biblioteca Nazionale di quel tempo, diretta in modo strambo, ci sarebbe da scrivere un romanzo gogoliano.
K. - Dalla Biblioteca Nazionale di Roma sei andata all’Istituto di Studi Orientali?
E.M. - No. A Roma ho studiato il cinese per quattro anni, poi, nel 1957, sono andata in Cina chiedendo l’aspettativa. Sono stata un po’ più di un anno all’Università di Pechino. Avevo una borsa di studio di tre anni a Pechino, ma avrei perso il lavoro in Italia, quindi sono tornata. Anche perché, per ciò che mi importava – la lingua contemporanea – ne sapevo abbastanza, e ho continuato a studiare in Italia. Sono tornata nel 1958, sono stata a Roma ancora due o tre anni, ma lì la vita era sempre più insopportabile, e ho chiesto il trasferimento a Milano. Me lo hanno dato immediatamente, in un giorno, d’ufficio, mi hanno pagato il trasporto delle mie cose, perché nessuno statale voleva trasferirsi da Roma a Milano – dove vi era carenza di personale, mentre a Roma ce n’era in eccesso. Sono rimasta a Milano alla Biblioteca Nazionale Braidense fino alla pensione, nel 1973.
K. - Il tuo ruolo era quello di direttore di biblioteca?
E.M. - No, di dirigente. Prima esistevano solo tre categorie: una categoria esecutiva, una intermedia, e la carriera direttiva. Ero nella carriera direttiva.  In quegli anni Andreotti promosse una riforma: dopo un certo numero di anni di servizio e un esame, i funzionari direttivi diventavano dirigenti. Fui tra questi. Il dirigente può avere un incarico di direzione ma in una biblioteca grande oltre il direttore c’è un certo numero di dirigenti. Io ero comunista, perciò non ho mai avuto una direzione. Ne ero stata preavvertita, ancora quando ero a Roma, dal capodivisione del personale: “Lei è brava e molto quotata, ma sarebbe meglio che smettesse di occuparsi di questioni sindacali”. Era uno legato con Gonella, il ministro democristiano della Pubblica Istruzione. Gli risposi: “Finché c’è la libertà....” E lui: “Che Dio ce la conservi!” e fu tutto. Non mi importava molto di questa limitazione della carriera, anche perché lo studio della storia e della letteratura della Cina stava diventando il mio interesse principale. Quello dei bibliotecari è un ambiente di persone civili. La direttrice ti rispettava. Nelle biblioteche allora vigeva il matriarcato: i concorsi di accesso erano difficili, si richiedeva una preparazione notevole, ma la professione dava poche soddisfazioni e pochissimi soldi. Così la maggior parte delle candidate a quella carriera era di donne. Questa gestione femminile funzionava bene, tutto sommato. Negli ultimi anni di Brera mi occupavo degli acquisti e del personale, una funzione dirigente anche se formalmente non ero il direttore.
Mentre lavoravo a Brera ho conseguito la libera docenza in letteratura cinese e ho ottenuto all’Orientale di Napoli l’incarico di letteratura cinese per quattro anni. Era una vita pesante, facevo la pendolare da Milano a Napoli. Non guadagnavo niente, mi davano ottantamila lire che non bastavano neanche per pagare il treno o l’aereo. (Fruendo già di uno stipendio statale potevo avere solo un’integrazione.) A Napoli ho insegnato letteratura cinese moderna. L’incaricato era qualcosa di simile all’associato di oggi, però in condizione di precariato, nominato anno per anno. Il pendolarismo naturalmente era pesante: a Napoli facevo cinque ore di lezione di seguito per due giorni. Erano i primi anni Settanta, il clima era post-sessantottesco, si passavano ore a parlare con gli studenti, era molto bello, ma pesante. Quando tornavo a Milano, trovavo accumulato il mio lavoro, non c’era un altro a farlo, nonostante l’autorizzazione ad assentarmi per due giorni. Ero nella “force de l’âge” e ce la facevo, ma con fatica.
Poi avrei dovuto decidermi a dare il concorso per la cattedra; in quel momento lo avrei vinto, i concorrenti erano pochi. Però avrei dovuto trasferirmi a Napoli: una città che amo molto, dove mi sono trovata benissimo. Ancora oggi con gli ex colleghi napoletani sono in ottimi rapporti. Ma la mia vita era impiantata a Milano, che non era quella di oggi, ci stavo molto bene. Qui avevo gli amici e i compagni, qui ero organizzata. Allora dissi: “Che m’importa, mica voglio fare la carriera universitaria”. Più tardi gli amici napoletani me ne hanno rimproverata, per aver perduto il contatto con gli studenti. È un rapporto che ancora oggi, per quanto occasionale, funziona molto bene. Eppure da giovane pensavo di non essere portata all’insegnamento; ma c’era un equivoco, pensavo all’insegnamento nella scuola media, ed effettivamente non sono portata ad avere a che fare coi ragazzini, a tener buona la classe, ecc. L’insegnamento a ragazzi adulti è un’altra cosa.
K. - E i «Quaderni piacentini»?
E.M. - è la storia di Milano di quegli anni. Perché volevo restare a Milano? Perché gli anni  Sessanta sono stati anni meravigliosi. Da Roma a Milano c’è stato per me un cambiamento radicale. È ancora la storia d’Italia. Gli anni Cinquanta sono i Dieci inverni di Fortini. Per molti di noi sono stati anni bui; poi è venuta la liberazione degli anni Sessanta. Prima dei «Quaderni piacentini» avevo conosciuto i compagni dei «Quaderni rossi». Raniero Panzieri l’avevo conosciuto già a Roma, tramite un amico comune; allora era un dirigente della sinistra socialista. Quando ero partita per la Cina, mi aveva detto: «Mandaci delle corrispondenze». Allora dirigeva «Mondo operaio» che durante la sua direzione fu una rivista bellissima. é durato poco, però, perché venne emarginato dal suo stesso partito e finì a Torino a lavorare per Einaudi. Era amico di Franco Fortini. Fortini l’ho conosciuto, perché al ritorno dalla Cina ho scritto un libro e glielo ho mandato. Pensavo fosse lo scrittore adatto a capirlo. Il manoscritto gli piacque molto. Lo presentò, con Panzieri, alla redazione Einaudi di cui faceva parte. Questo è accaduto pressappoco nello stesso periodo in cui mi sono trasferita a Milano, all’inizio degli anni Sessanta. Da Einaudi vi fu un grande litigio intorno al mio libro, perché conteneva delle critiche al regime cinese, fatte da un punto di vista socialista, non da un punto di vista ostile. Però alcuni non erano d’accordo, sostenevano che qualsiasi critica sarebbe andata a vantaggio del nemico. C’era questa mentalità un po’ stalinista, anche fra non stalinisti. Si oppose principalmente Renato Solmi, un uomo straordinario col quale in seguito ho stretto amicizia, ma in quel momento troppo osservante e timoroso dell’eresia. Allora il libro non uscì. In quell’occasione ho avuto un rapporto un po’ più discorsivo con Panzieri il quale mi consigliò: «Non lo dare ad altri editori perché perderebbe il suo carattere». Oggi non è più così, ma allora Einaudi aveva una certa sua nobiltà. Le case editrici non erano tutte uguali come oggi. Così l’ho messo nel cassetto. Soltanto qualche anno fa è uscito da Feltrinelli con il titolo Ritorno a Pechino, con un’introduzione esplicativa.
Panzieri mi disse: «Comincia a frequentare le riunioni dei nostri “Quaderni rossi”» e mi fece fare dei lavori. La rivista era quasi un sottoprodotto di un intenso lavoro precedente. Non ci si incontrava come si incontra una redazione, ma per organizzare un lavoro di studio, di inchiesta e di ricerca – specialmente nelle fabbriche torinesi. Si facevano grandissime sedute di discussioni. Poi alcuni dei risultati venivano pubblicati nella rivista, di cui uscirono appena cinque numeri. È stata per me un’esperienza straordinaria, ho avuto modo di incontrare un insieme di cervelli eccezionale. C’erano Vittorio Rieser, Giovanni Mottura, Liliana e Dario Lanzardo, Michele Salvati che era l’ala destra, Bianca Beccalli,  Mariuccia Salvati, Mario Tronti, Toni Negri, Adriano Sofri, ecc... Il nucleo di quella che è stata poi la sinistra italiana pensante, in ogni direzione, è passato dalla rivista. Dopo un certo periodo, entrai a far parte della redazione.
I «Quaderni piacentini» erano più collegati con Fortini, che lavorò per metterli in rapporto con i «Quaderni rossi». Non è vero che Fortini fosse un isolato, come dice Rossana Rossanda. Al contrario, era un organizzatore di cultura, metteva in relazione le persone, in un continuo lavorio.  (Un numero sull’America Latina fu realizzato insieme dalle due redazioni.) Grazie a Fortini cominciai a frequentare i «Quaderni piacentini», conobbi Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi. In seguito entrai nella redazione.
K. - Il valore di queste persone era davvero elevato, molte delle cose allora dette si sono rivelate azzeccate.
E.M. – Intorno ai «Quaderni rossi» gravitavano anche un gruppo toscano, amici di Sofri, i veneziani incluso Luigi Nono, anche dei napoletani e dei siciliani. Poi c’era anche Giovanni Pirelli, che fra l’altro ha aiutato finanziariamente la rivista. Un uomo straordinario. Molti degli articoli dei «Quaderni piacentini» sono stati tradotti in Europa e anche altrove. In Francia, la rivista di Sartre riprendeva i nostri articoli. In Germania, facevano opuscoletti dei nostri articoli. è stato un momento in cui è esistita in Europa una sinistra seria, nella quale gli italiani hanno avuto un ruolo. «Quaderni piacentini» per un certo periodo è stata la più bella rivista europea di politica-cultura.
K. - Come mai, al di là del dato della naturale dispersione (c’è chi muore ecc.), questo patrimonio si è smarrito?
E.M. - Si è persa la funzione sociale dell’intellettuale. Quei cervelli in qualche modo erano ancora un residuo di certa cultura umanistica, e si sono dispersi. Il mio amico Giuseppe Gozzini diceva: «Il Sessantotto è stato il rantolo finale di un periodo che durava da più di un secolo». Se si guarda la storia delle persone, ognuno è rimasto un atomo per conto suo, una monade. Chi aveva una sua moralità personale, come Bellocchio o Vittorio Rieser, si è mantenuto isolato, facendo il proprio lavoro in modo decente, ma isolato. Quelli che davano meno importanza alla salvaguardia della loro purezza intellettuale, sono entrati nel giro o economico o politico o accademico - qualche volta diventando uomini di regime.
K. - Ma non è per l’incapacità di pensarsi in un modo diverso?
E.M. - No, come diceva Marx, non si può fare come il Barone di Münchausen che cercava di sollevarsi da terra tirandosi per i capelli. Tu non puoi più avere quella funzione nella società, se la società non te la dà. Sei autoreferenziale. Lo sei perché ti hanno messo in quella condizione.
K. - Ma non è anche per il fatto che gli intellettuali non si sono pensati fuori da questa autoreferenzialità?
E.M. - Secondo me, individualmente questo è accaduto. Alcuni non lo hanno fatto. Ma se parliamo della categoria, la categoria è determinata anche dal contesto. L’individuo molto meno, si può salvare, si chiude nel suo guscio, ha la sua moralità personale, continua a fare le sue cose... Però se pensiamo a una funzione di gruppo, no. Ritengo che nella fase attuale dell’evoluzione economica e politica mondiale, quelli che erano chiamati gli intellettuali, ma che in realtà erano gli intellettuali umanisti, anche del tempo di Marx e poi via via, non hanno più quella funzione che hanno avuto per un secolo e mezzo: in quanto oggi le leve del potere, sia pure con asservimento, sono semmai nel campo della scienza e della tecnologia. Per esempio, il sistema di dominio attraverso la biogenetica, senza una scienza asservita sarebbe impossibile. Il potere delle transnazionali della chimica senza il potere degli universitari sarebbe impossibile. Questi sono veramente gli asserviti pericolosi. Quando tu hai un asservito in campo umanistico, il peggio che può fare è del giornalismo fetente... non dico che faccia poco male, ma tutto sommato... Il potere in questo senso è limitato, mentre non lo è il potere di quelli che organizzano l’industria chimica in un certo modo e sono asserviti a quella, oppure la corporazione dei medici, quelli che insomma hanno finito per fare della vita umana qualcosa di spaventoso. Diceva un mio amico, ora morto: «Se mi ammalo gravemente, la prima cosa che faccio è nascondermi»; perché uno non vuole diventare oggetto di esperimenti, campare tre anni di più, sottoposto a sofferenze atroci per quei tre anni in più che lo fanno vivere.
       Certamente è necessario un contributo di pensiero teorico al cambiamento effettivo, di filosofia, di economia ecc... sarà necessario questo, ma non c’è ancora. Chi detiene il potere non ha più bisogno di intellettuali, si serve di altri, di mezze calzette.
K. - Ma come possiamo considerare questi degli intellettuali? Non hanno la coscienza critica dei propri statuti scientifici o umanistici. E perché questa scissione fra scienziati e intellettuali umanistici? Si tratta di intellettuali e basta.
E.M. - Sono d’accordo, dico solo che detengono un pezzo di potere, e per di più sono asserviti.
NOTE

[1] Edoarda Masi è nata a Roma nel 1927. Si è laureata in giurisprudenza a Parma nel luglio1948. Dal 1950 aI 1973 è stata bibliotecaria (ruolo direttivo, ruolo dirigente) nelle biblioteche statali (Biblioteca Nazionale di Firenze, Biblioteca Nazionale dì Roma, Biblioteca Nazionale di Milano). Nel 1956 si è diplomata presso l’ISMEO di Roma in lingua e istituzioni cinesi e in lingua russa. Dopo un corso di perfezionamento in lingua cinese presso lo stesso ISMEO, ha frequentato un corso speciale di lingua cinese presso l’Università di Pechino, nel cui campus ha vissuto nel 1957 e 1958. Dal l968 al 1971 ha tenuto seminari sulla cultura e la storia della Cina moderna presso le università di Torino, Venezia, Roma, l’Istituto superiore di sociologia di Milano, l’Istituto universitario orientale di Napoli, l’istituto di studi storici e sociologici dell’Università di Urbino, l’istituto superiore di scienze sociali di Trento. Nel 1970-71 ha insegnato lingua cinese presso l’ISMEO di Milano. Nel l971 ha conseguito la libera docenza in lingua e letteratura cinese. Negli anni accademici 1971-72, 1972-73,1973-74 è stata incaricata dell’insegnamento di letteratura cinese moderna e contemporanea presso l’istituto universitario orientale di Napoli.. Nel 1976 ha lavorato informalmente presso l’Ambasciata d’Italia a Pechino. Nell’anno accademico 1976-77 ha insegnato lingua italiana presso l’Istituto universitario di lingue straniere di Shanghai. Oltre che in Cina, ha viaggiato (in Asia) in Giappone e in Vietnam. Ha collaborato a diversi periodici, fra i quali: «Alfabeta», «Annali Feltrinelli», «Antigone», «Asahi», «Aut aut», «Azimuth», «Cina»,  «Critica, revista de la Maestria en ciencias sociales de la Universidad Autonoma de Guerrero», «Guerre & Pace», «Ideologies», «Kursbuch», «L’Indice», «Linea d’ombra», «Nuova rivista storica», «L’ospite ingrato: Annuario del Centro studi Franco Fortini», «Quaderni dell’amicizia (Associazione Italia-Cina», «Quaderni piacentini», «Quaderni rossi», «Rivista di storia contemporanea», «Rivista storica del socialismo», («Socialist revolution», «Tempi moderni», «Les temps modernes», «Ulisse». Ha pubblicato i seguenti volumi: La contestazione cinese. Torino, Einaudi, 1968;1969;1971 (trad. tedesca: Die chinesische Herausforderung. Berlin, Wagenbach, 1970); Lo stato di tutto il popolo e la democrazia repressiva. Milano, Feltrinelli, 1976; Per la Cina. Milano, Mondadori, 1978 (trad. americana, con variazioni e aggiunte: China Winter. New York, Dutton, 1982); Breve storia della Cina contemporanea. Bari-Roma, Laterza, 1979; Il libro da nascondere. Casale Monferrato, Marietti, 1985;Cento trame di capolavori della letteratura cinese. Milano, Rizzoli, 1991 ;Ritorno a Pechino. Milano, Feltrinelli, 1993; Storie del bosco letterario. Milano, Scheiwiller, 2002. Ha curato le seguenti traduzioni dal cinese:
Cao Xueqin, Il sogno della camera rossa. Torino, UTET, 1964; 1981; Lu Xün, La falsa libertà. Torino, Einaudi, 1968; Feng Youlan, Sommario di storia della filosofia cinese, in: “i problemi della pedagogia”, 1971-72; Lao She, Città di gatti. Milano, Garzanti, 1986; Confucio,I dialoghi. Milano, Rizzoli, 1989; Chuanqi: storie fantastiche Tang. Parma, Pratiche, 1994; Lu Xün, Erbe selvatiche. Macerata, Quodlibet, 2003.
[2] Kamen’ Rivista di poesia e filosofia, anno XIII – n° 23 – gennaio 2004 – Direttore Responsabile: Amedeo Anelli