C’è molto più da ridere su Eco che su Garibaldi
IN “FÌDEG” PAOLO COLAGRANDE, SCRITTORE REALISTA, FA METALETTERATURA E SI ARRENDE DOPO OGNI RIDICOLA VITTORIA
Sto leggendo il romanzo-opera prima “Fìdeg” di Paolo Colagrande (Alet, pp.205, euro 12). Ma ho detto avventatamente “romanzo”, perché appunto lo sto leggendo, sono solo a pagina 38 e che questo che leggo sia un romanzo è solo un’ipotesi da verificare o, come direbbe Karl Popper, da falsificare. Ma già ho capito, caro Colagrande che tu ce l’hai con Karl Popper, ragione per cui sono già certo che arriverò alla fine del libro e tu non mi avrai permesso né di verificare né di falsificare l’ipotesi che il tuo sia o non sia un romanzo. Non lo sai neppure tu. Pensi che sia un falso problema. E comunquesia, romanzo o non romanzo, il fatto è che io, da quando ho cominciato, ho continuato a leggere. Potrei smettere. Ma so che continuerò. Non riesco a immaginare come farò a recensirti, caro Colagrande. E allora la sola scappatoia è imparare da te, mettermi sulla tua strada, cantare in coro in due, anche se tu (te lo dico subito come giudizio, in veste di recensore) ho già capito che canti meglio di me. Sei più allenato e credi di più nel canto. O più precisamente, come dicono i recensori pignoli, non ci credi per niente, ma non ci credi con una tale convinzione, dovuta all’allenamento di non credere, che la tua è una vera fede nella non-fede. Io questa fede non ce l’ho, non l’ho ancora raggiunta. Distinguo ancora e credo, come un allocco, che si possa, in alternativa, credere o non credere, due cose diverse, diversamente ma anche similmente, sia comiche che, permettimi, un po’ tragiche. O meglio, tragiche lo sarebbero, se ci fosse un Dio letterario, a farci credere per certo nei generi letterari. Ma tu mi insegni che non c’è né Dio né ci sono i generi. Ecco, te lo dico subito, caro autore Paolo Colagrande, e tu, caro lettore già stufo di leggere la mia pseudo-recensione al suo libro, romanzo o non romanzo. Ecco il problema e nello stesso tempo la sua soluzione: il fatto è che senza una chiara ragione (e io professionalmente alla chiarezza ci tengo) sto continuando a leggere il libro e come recensore dovrò almeno cercare di capire e di spiegare perché, che cosa mi succede, come mai lo faccio. Fuori di parodia, come potrebbe anche dire il filosofo Giorgio Agamben, che sull’idea di parodia ha scritto un saggio abbastanza sibillino (perché per lui la parodia non è per niente quello che si intende per parodia, ma è la sola cosa seria che ci è dato di fare), fuori di parodia, dicevo, o sempre più addentro nella parodia, affermo con convinzione da prendere alla lettera che Paolo Colagrande ci sa proprio fare, nel suo genere, cioè nella negazione parodistica e ludica dei generi, nonché nella parodia della negazione, dato che la negazione per lui è evidente che ha fatto il suo tempo, come hanno fatto il loro tempo sia il maestro Borges che gli allievi Calvino e Eco, con la mania di citarli insieme in fila per dimostrare che la letteratura è una cosa e la realtà è un’altra, eccetera eccetera. Una scrittura che crea e distrugge se stessa. Il motore del libro (una sequela di piccole catastrofi personali, cioè importantissime per la persona) è la voce che Colagrande ha inventato e si è dato per tirare avanti. Con quella voce, che fa comunque ridere, può dire quello che vuole. Potrebbe fermarsi quando vuole, anche subito. E può anche non smettere più. Cosa che non ha fatto (è un tipo intelligente, ma fa finta di no) perché credo che si sia controllato parecchio, alla fine, anche se non sembra. Si è controllato o si è stufato e ha smesso a pagina 205, quando il suo primo libro, questo “Fìdeg” che cerco di recensire, si ferma. La cosa che fa capire Colagrande, anche ai più letterati fra i letterati, intendo a quelli che ci tengono molto ad avere “una precisa idea di letteratura” (troppo precisa) e sanno sempre che cosa distingue essenzialmente la letteratura da tutto il resto che si scrive, è che il problema non è l’idea di letteratura che si ha, ma come la si mette in pratica quando si scrive. Voglio dire che l’idea che hai può essere anche buona e bella, ma se quello che combini sulla pagina risulta insulso, pretenzioso e noioso, l’idea non vale, non ti salva, non è più né bella né buona. Credi nella realtà e credi che la letteratura dovrebbe parlarne? Non importa. Bisogna vedere se è reale quello che scrivi credendo di scrivere di cose reali, che succedono. Le cose reali possono anche succedere, ma se nelle tue pagine non succede niente di reale per chi legge, neppure una bugia o un delirio, non c’è realtà che ti salvi. Credi viceversa nella scrittura che è tutto, che produce se stessa e crea un mondo parallelo, autonomo e indipendente rispetto a quello presuntamene reale? Non importa nemmeno questo. Di libri che credono nella scrittura invece che nella realtà ne conosco e ne ho letti. Ma alcuni sono buoni, altri non valeva nemmeno la pena di scriverli e si capisce subito che l’autore si illude affidandosi a quella che crede una giusta e precisa idea di letteratura. Colagrande fa metaletteratura e fa letteratura realistica allo stesso tempo. La sua è una scrittura che crea e distrugge se stessa pagina dopo pagina, capoverso dopo capoverso. Non c’èniente che “consista” fuori di quello che sta scrivendo in quel momento colui che scrive. Solo che per scrivere Colagrande non può fare a meno di parlare delle cose vere che sa o immagina, più o meno di persona. E allora parla di tutto ciò che riesce ad acchiappare, a tirare dentro il libro e a immagazzinare (nel suo caso una serie di cupi, esilaranti fallimenti). Dice una cosa. Poi cambia e ne dice un’altra. Poi ci torna. Tutto è un po’ inventato, ma tutto è piuttosto vero. Quasi vero: come quando si dicono le cose vere trovandole o rendendole comiche. Colagrande racconta come sta cercando di scrivere un romanzo storico sugli eroi di guerra e di pace da Garibaldi a oggi: o meglio riscrivere, perché il manoscritto del suo primo e vero romanzo storico è andato perduto, è finito in una discarica, e lui ora deve ricordarselo, riassumerlo, sintetizzarlo. L’autore ha lottato e lotta con la vita. Ma il segno della sua vittoria è che si è arreso. Sa arrendersi in tempo ogni volta che trova ridicola e poco appetibile qualsiasi vittoria. Qualunque cosa succeda e comunque vada, lui, l’autore, il narratore, porta a casa il suo bottino di cose da dire, metà vere e metà che furono vere e adesso fanno ridere. Colagrande ci mostra che scrivere letteratura è un aldilà da quello che succede, ma solo dopo che è successo. Perché lo scrittore, uno scrittore come lui e come tanti altri suoi fratelli, è uno che in sostanza dice: io ci sono, a me è toccato tutto questo. Eppure io non c’entro. Con quello che mi è successo e può succedermi, io c’entro fino a un certo punto. Io c’entro poco. Non mi acchiappate più. Quella di Colagrande è letteratura realistica scritta per far scivolare la realtà, toglierle il contegno e farla diventare comica, patetica, ridicola, una realtà senza eroi, perché di qualunque eroe parli, a cominciare da se stesso, non si può che ridere. Senza disprezzo. Con affetto e pietà. Lo scrittore comico può sembrare cattivo. Ma è buono. E’ il più buono degli scrittori. Solo che la sua bontà è implacabile. Si finisce tutti a culo per terra, mentre lui ci fa ridere, ci commisera e ci vieta anche la fantasia di qualunque eroismo. Perché poi, come tutti sanno, i nostri tempi sono antieroici, specie in letteratura. Comunque, grazie, caro Colagrande, per averci fatto ridere dei nostri eroi da Garibaldi a Umberto Eco, dimostrando proprio bene che su Eco c’è molto più da ridere che su Garibaldi, seriamente parlando.
Alfonso Berardinelli
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