Devo avvertirvi subito che nel mio vocabolario abituale, lo scrittore è il contrario del letterato. Anzi, una delle possibili definizioni giuste di scrittore, per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura. (1965)
Si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta tentazione di disintegrarsi. (1965)
Infine, le famose bombe, queste orchesse balene che se ne stanno a dormire nei quartieri meglio riparati dell’America, dell’Asia e dell’Europa: riguardate, custodite e mantenute nell’ozio come fossero un harem: dai totalitari, dai democratici e da tutti quanti; esse, il nostro tesoro atomico mondiale, non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma la manifestazione necessaria di questo disastro, già attivo nella coscienza. (1965)
In una folla soggetta a un imbroglio, la presenza anche di uno solo che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto di vantaggio. Ma il punto, poi, si moltiplica per mille e per centomila se quell’uno è uno scrittore (s’intende un poeta). Anche senza accorgersene, per necessità del suo istinto, il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli. E una poesia, una volta partita, non si ferma più; ma corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato. (1965)
In mancanza di compagni o di seguaci, di ascoltatori o di spettatori, lo spirito libero è tenuto alla sua lunga marcia lo stesso, anche solo di fronte a se stesso e dunque a Dio. Niente va perduto (v. il granello di senape e il pizzico di lievito); e in conseguenza, chiunque schiavizza, sotto qualsiasi pretesto, il proprio spirito, si fa agente con questo del disonore dell’uomo. Doppiamente disgraziato è chi si adopera a diffondere il contagio fra gli altri e tanto più miserabile se lo fa in vista o per il gusto di un proprio potere personale. Servirsi a fini di potere degli sfruttati (anche solo del loro nome) è la peggiore forma di sfruttamento possibile. Proclamare il proprio amore per gli operai può riuscire un comodo alibi per chi non ama nessun operaio, e nessun uomo. (1970 o 71)
Nella edizione originale italiana, questo romanzo, sotto il suo titolo La Storia, porta il seguente sottotitolo: Uno scandalo che dura da diecimila anni. (…) Si tratta di una ovvietà. A scorrere qualsiasi sommario di Storia universale, si scopre subito che la sterminata vicenda umana, pur nei suoi sommovimenti e disuguaglianze, presenta un paesaggio di ossessiva monotonia. La storiografia, per quanto esplori, ritrova dovunque lo stesso scandalo incessante. A distanza o da vicino, ogni società umana si rivela un campo straziato, dove una squadra esercita la violenza e una folla la subisce. Ma il fatto che questo male sia sempre esistito non è motivo che gli dia il diritto di esistere. (1977)
Confesso che dato l’uso che ne è stato fatto nella storia fino a tutt’oggi, mi ripugna ormai di ripetere la parola rivoluzione (e fin di pronunciarla). Però questa parola, per quanto stuprata e tradita, in se stessa mantiene il suo significato primo e autentico: di grande azione popolare al fine di instaurare una società più degna. Ora, su questa chiara definizione, sono state sventolate troppe bandiere equivoche. E il primo equivoco è stato di scrivere, su queste bandiere, il motto nazionale: Il fine giustifica i mezzi. Questo principio (non per niente sventolato da Benito Mussolini e dai suoi simili per le loro ‘rivoluzioni’) è sicura insegna di falsità. Anzi la verità sta nel suo rovescio: I mezzi denunciano il fine. (1978)
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