pagine della cospirazione antifascista a Piacenza
Paolo Belizzi […] nasce all’inizio del Novecento, penultimo dei sette figli di una famiglia contadina, in Comune di Podenzano. […] il suo apprendistato lavorativo umano politico-morale si concreta negli anni immediatamente successivi all’enorme e insensata tragedia della Grande guerra, tra biennio rosso e nascente fascismo. […] Scrive: «Nonostante la mia giovane età, cominciai ad odiare chi faceva il doppio gioco, anche se non ero in grado di valutare chi avesse torto. Capivo però che era una vigliaccheria tenere il piede in due scarpe. Per conto mio, date le condizioni della famiglia da cui provenivo, non potevo che stare dalla parte dei poveri e quindi a sinistra».
[…] Sin dall’inizio il suo antifascismo si nutre di severità morale, un tratto che caratterizzerà il Belizzi in maniera permanente. […] Belizzi scelse subito di essere “intero, non astuto” – integro, leale, non doppio – e dovette capire ben presto, credo, che la fedeltà alla propria parte non esclude, anzi implica, di essere critici e vigili sulle ragioni e i valori originari, che tali restano solo se continuamente riverificati (rigenerati) nelle circostanze della vita, personale e collettiva. Sempre ben alla larga da quel “gattopardismo”, a tal punto costitutivo di questo paese, da sopravvivere ai crolli dei Muri e alla globalizzazione.
[…] Belizzi scelse non solo la parte giusta, ma, aggiungerei, il modo giusto di starci: in prima fila di fronte alle responsabilità e agli oneri (l’attività cospirativa, il confino, l’isolamento, il carcere, i continui e tremendi rischi dell’organizzazione della Resistenza in città); lontano o allontanato, in disparte, ai margini, quando giunse il momento degli onori. Mettiamola così: non vi era portato.
[…] Ho conosciuto Paolo Belizzi nei primi anni Settanta e ci siamo assiduamente frequentati per poco più di un decennio. Per Paolo fu quello conclusivo di una vita lunga, intensa e operosa, che aveva attraversato tutto il secolo; io ero tra i venti e i trent’anni. Nel ’74, provenendo dalle esperienze del movimento studentesco e della sinistra extraparlamentare, demmo vita al Comitato anitifascista militante (Cam). […] Anche se ancora non lo sapevo, cercavamo una tradizione, senza la quale non si vive il presente. La trovammo nelle persone – almeno per quel che mi riguarda – prima che nei libri. Innanzitutto in Belizzi: in rivolta coi padri, ci soccorsero i “nonni”.
[…] Dal 1976 Paolo Belizzi fu presidente del Cam, eletto dall’assemblea degli iscritti , che nei secondi anni Settanta erano centinaia. La sua presenza fu fondamentale per aiutarci nel lavoro di conoscenza e valorizzazione del passato che avevamo intrapreso. Riscoprimmo luoghi e figure della Resistenza piacentina allora trascurati, se non dimenticati.
[…] Quando nell’ottobre 1986 Paolo morì, […] i famigliari desideravano che a ricordare la causa e l’impegno di Paolo fosse una persona, non una sigla. La scelta cadde quasi naturalmente su di me, un onore di cui vado fiero, la conferma di un’amicizia davvero profonda. Davanti a quella sua bara che veniva calata nella terra, ancora mi fu maestro Paolo: non dovevo far altro, pensai, che provare a rendergli l’estrema manifestazione di fratellanza, che da lui avevo sentito tributare a Carlin.
[…] privilegiare l’approfondimento della dottrina rivoluzionaria rispetto alle trasformazioni da essa prodotte negli uomini e nelle loro relazioni; non rendersi ben conto che è la voce di uomini diversi a dare forza all’appello a essere diversi ( cioè a cambiare il mondo), e il concreto operare di uomini trasformati da una fede, la più efficace testimonianza di quella fede…Per farla breve , “The singer, not the song”, come recita il titolo originale di un vecchio film : il cantante, prima e più della canzone. «Un uomo è sempre più importante della sua poesia», ha scritto una volta Bellocchio del poeta partigiano Vico Paveri. Io un pò lo sapevo, certamente più di altri della mia generazione, perché il problema l’avevo incontrato e riconosciuto: ne avevo la prova su e dentro di me. Ma non abbastanza per dirlo.
Paolo Belizzi ci consegna la sua testimonianza in questo libro umile e schivo, in cui riservatezza e pudore velano una pratica del bene ordinaria quotidiana normale, non perciò minore, anzi. Uomini semplici come lui e suo fratello Mario, Carlo Bernardelli, Guido Fava, Guglielmo Schiavi, Angelo Chiazza, Emilio Cammi ci insegnano che, quando è giusto, si può dire ‘no’ anche se tutti dicono ‘si’, che in ciò non soccorrono la nascita né la ricchezza o la cultura, e che ciò non accade invano. Nelle pagine di Belizzi e nella sua vita, le persone valgono più delle idee, le formano e danno loro fondamento. Un tale criterio di giudizio si deve applicare anche a lui: e Belizzi valeva molto di più delle sue parole.
“Dare il meglio per nulla”: mi pare questo l’ideale pratico di Belizzi, ciò di cui esplicitamente rende merito, in queste pagine senza pretese, alle donne senza pretese che lo hanno accompagnato nella vita e nella lotta: Marcilla, Luisa, Elda, Linda. E se m’interrogo oggi su cosa quest’uomo severo e mite, dotato di una naturale signorilità, abbia potuto trovare nella decennale frequentazione del nostro gruppo di giovani scapestrati, vorrei rispondere: quello che cercava. Qua e là, ogni tanto, a piccole dosi, almeno l’eco dell’antica generosità che dava senso alla sua vita.
Gianni D'Amo
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